Quarta Domenica di Pasqua – Gv 10,1-10

 
 

–  La tenerezza fra pecore e pastore  –

a cura di Mons. Alberto Albertazzi – alberipazzi@gmail.com –

Nel vangelo di Giovanni Gesù ama autodefinirsi: «io sono il pane vivo disceso dal cielo», «io sono la luce del mondo», «io sono la risurrezione e la vita», «io sono il buon pastore», «io sono via, verità e vita».

Questa domenica Gesù afferma: «Io sono la porta delle pecore». Tutti questi «io sono» suonano assai suggestivi e didattici, perché aiutano a comprendere il senso della presenza del Figlio di Dio in terra. Ma ci sono anche degli «io sono» punto e basta, senza nome del predicato. Esempio: «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che Io Sono» (Gv 8,28). «Io Sono» chi? Gesù non lo dice.

Fa bene la traduzione Cei 2008 a scrivere con iniziali maiuscole, lasciando così intuire il gigantismo di quel «Io Sono» in cui probabilmente si rannicchia il nome di Yawè. Il nome del predicato è sempre limitativo: infatti se dico «io sono la luce», automaticamente e implicitamente dico che non sono il buio. Se invece dico «Io Sono», mi identifico con l’essere nella sua sterminata ampiezza.
C’è un altro «io sono» che solitamente viene frainteso dai traduttori nel senso identificativo di “sono io”. Quando Gesù è arrestato nell’orto degli ulivi, chiede agli sbirri: «Chi cercate?»; e quelli rispondono: «Gesù il nazareno». Egli ribatte non «sono io» – come abitualmente tradotto – ma «Io Sono» (in greco Egô eimi). Allora si comprende il capitombolo a terra dei poliziotti, sopraffatti da quel mastodontico, schiacciante «Io Sono» divino (Gv 18,4-6).
Fatte queste precisazioni veniamo al vangelo di questa domenica: «Io sono la porta delle pecore». Gesù è dunque il passaggio obbligato, l’ingresso autorizzato all’ovile del Padre. Chi cerca di introdursi per altra via sbaglia percorso. La finestra non dà accesso, perché praticata solo da ladri e furfanti. È dunque messa a tema la funzione mediatrice di Gesù, enunciata in lungo e in largo nella Lettera agli Ebrei e sintetizzata da san Paolo in 1 Tim 2,5: «Uno solo è Dio e uno solo anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Gesù Cristo».  Della sua inevitabilità Gesù è ben consapevole, se no non avrebbe detto «nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14,6).
Ma prima di identificarsi con la porta Gesù lascia affiorare la seconda parte dell’allegoria (10,11-18), ove si identifica col buon pastore. Dopo avere detto che dalla porta entrano solo i benintenzionati, ossia il pastore, si intrattiene brevemente a descrivere il rapporto confidenziale fra questi e le pecore: «Egli [il pastore] chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori … cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce». È un serenissimo rapporto di tenerezza reciproca, che collega affettuosamente pecore e pastore.
Gesù rivendica l’esclusiva di questo rapporto privilegiato, bollando come ladri e briganti quelli che sono venuti prima di lui. Ma le pecore – miti di natura loro ma non citrulle – «non li hanno ascoltati».  Chi sono questi loschi figuri. Non certamente i profeti ufficiali dell’Antico Testamento. Non se lo meritavano e Gesù non se lo sarebbe permesso.  È più facile pensare a millantati maestri di estrazione scribal-farisaica o a masanielli tipo quelli citati da un autorevole e probo rabbì, di nome Gamaliele, che a un intervento di mirabile buon senso, menziona peraltro ignoti Giuda e Teuda che hanno fatto in precedenza parlare di sé, finendo poi nel dimenticatoio (cfr At 5,34-39).
Gesù ancora, con bucolico sfioramento dell’ubertoso salmo 22,1-2, ribadisce di essere la porta oltre la quale le pecore trovano pascolo e salvezza, essendo egli venuto per portare la vita in abbondanza: evidente allusione alla vita eterna.