II Domenica Tempo Ordinario

 
 

commento al Vangelo Gv 1,35-42 a cura di Luciano Condina

«Erano circa le quattro del pomeriggio» (Gv 1,39): con questa indicazione dell’ora, l’evangelista Giovanni tiene a specificare il momento preciso del giorno in cui è avvenuto il suo primo incontro con Gesù e si è fermato nella sua dimora. Dobbiamo tenere a mente che la precisione nell’indicare l’ora esatta come la intendiamo oggi era sconosciuta ai tempi di Gesù, non tanto riguardo alla misurazione quanto alla precisione nel riportarla. Per darsi un orario durante il giorno venivano generalmente usate le quattro horae principali (prima, terza, sesta e nona) e le quattro vigiliae per la notte, quelle indicate da Gesù in Mc 13,35, che corrispondevano ai cambi di sentinella.

La precisione nel testo è fondamentale, perché indica l’importanza del fare memoria del nostro primo incontro con Gesù: aperti alla potenzialità dal battesimo, l’incontro è il momento fondante della nostra storia cosciente di fede, in cui cambia ogni nostra prospettiva esistenziale.

In verità i modi di incontrare il Signore sono fondamentalmente due: “come un fulmine”, ossia in un momento preciso che rimane scolpito per sempre nella memoria, come nei casi di questo vangelo e di S. Paolo, che cadde da cavallo sulla via di Damasco; oppure “come l’aurora”, cioè in un percorso di cui non si possono tracciare precisamente le tappe, ma che certamente è avvenuto perché dal buio si è passati alla luce.

In entrambe le situazioni è bene fissare la memoria di quando e come il Signore ha fatto irruzione nella nostra vita, perché questo episodio è la prima luce posta da Dio nel nostro buio esistenziale ed è la prima àncora di salvezza nei momenti di sconforto.

Un altro paradigma fondamentale del testo è la modalità attraverso cui il Signore ci viene indicato: l’incontro non avviene mai solo tra noi e Lui, c’è sempre un terzo, un messaggero che ce lo indica. Questa volta il Battista lo indica ai due suoi discepoli: Andrea e, verosimilmente, Giovanni; il primo, a sua volta, indicherà Gesù al fratello Simone, il secondo al fratello Giacomo.

Nella prima lettura si narra la chiamata di Samuele, che, per decifrarla, ha bisogno della “traduzione” del sacerdote Eli, futuro profeta, il quale lo esorta a rispondere: «Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta” (1Sam 3,9); allo stesso modo Saulo verrà inviato dal Signore  ad Anania, perché recuperi la vista (cfr. At 9,10-18).

Per ognuno di noi c’è stato, c’è e ci sarà sempre un messaggero che indica Gesù, ci conduce a lui e ce lo fa conoscere. Questa figura non ha nulla in comune con il “maestro che appare quando lo cerchi”, proposta da certe spiritualità orientali: il messaggero del Dio vero ci precede, esiste già anche se non lo stiamo cercando, e forse non lo vediamo solo perché siamo distratti da altro; il messaggero è un primo segno tangibile della cura che Dio ha per ciascuno di noi. Il messaggero è necessario perché nei momenti bui della vita, la nostra memoria dell’incontro  con Cristo può sgretolarsi in un abbaglio sentimentale, mentre la presenza di un messaggero conferisce solidità, importanza e ufficialità a ciò che è avvenuto.

La dinamica di trasmissione della fede è sottolineata dall’apostolicità della Chiesa, che di discepolo in discepolo, giunge fino a noi e sopravvivrà a noi: è bene ricordarlo per i profeti di sventura i quali temono in questi tempi, certamente difficili, che tutto stia per crollare.

Il capo della Chiesa è Cristo e non la abbandonerà sino alla fine del mondo (cfr. Mt 28,20).