Terza Domenica di Pasqua Lc 24,13-35

 
 

–  In cammino verso Emmaus –

a cura di Mons. Alberto Albertazzi – alberipazzi@gmail.com –

È una bella grana! Il vangelo di questa domenica è esattamente quello da me esaminato quindici giorni fa!  Per fortuna il vangelo è continuamente trapanabile  e fornisce spunti inesauribili.
Intanto notiamo che questo episodio è certamente il più divertente fra le varie apparizioni del risorto. Ha fatto bene l’evangelista Luca a “risuscitarlo” – per l’appunto – dall’apatica annotazione di Marco (16,12): «Apparve [il Risorto] sotto altro aspetto a due di loro mentre erano in cammino verso la campagna».
L’altra volta avevo considerato la vicenda nel suo insieme. Ora rovisto sul parlato più lungo che vi troviamo: quello dei due discepoli in risposta all’interpellanza di Gesù circa il loro afflitto sermocinare cammin facendo.

Dopo aver esternato la sorpresa che il misterioso viandante fosse ignaro dei recenti fatti gerosolimitani (anche Gesù, se vuole, è capace di bluffare!), glieli sunteggiano meticolosamente. Il perno del discorso è Gesù il Nazareno, profeta potente in opere e parole. Sembra quasi la sua carta d’identità, però solamente umana. Gesù viene identificato come «profeta potente in opere e parole», ed è vero. E aggiungono «davanti a Dio e a tutto il popolo». Sfiorano un rapporto fra Gesù e Dio ma non sono ancora in grado di individuarlo come di filiazione. Un passo alla volta.

Fino a questo punto Gesù non risulta superiore ai profeti dell’Antico Testamento: essi pure sono stati potenti in parole (senza tuttavia l’originalità sorprendente di Gesù) e in opere. Elia ed Eliseo risuscitarono un morto a testa (1 Re 17,24; 2 Re 4,32-37)! Il messaggio dei vari Isaia, Geremia, Ezechiele ad altri è di altissimo livello. Eppure nonostante le sue inequivocabili benemerenze – aggiungono – «le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso». È messo a fuoco in formula sintetica l’assurdo del venerdì santo: una condanna a morte per avere fatto del bene. E poi incespicano nel solito tranello, difficile da evitare, nel quale cascarono anche gli apostoli, essendo Gesù in procinto di ascensione: «Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele» (cfr At 1,6).

Ecco il logoro teorema della micro-redenzione soltanto politica. Lo sguardo dell’uomo è sempre rasoterra, incapace di elevarsi a livello soprannaturale senza il supporto della fede e della grazia di Dio. E poi il tonfo in una cupa delusione «sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute». Verrebbe quasi voglia di aggiungere: e non è capitato ancora niente di decisivo. Cosa si attendevano? Una risurrezione immediata, che viceversa si fa troppo attendere? Pare che per questi due anche le testimonianze delle donne accorse al sepolcro siano da catalogare come dicerie: «Alcune donne delle nostre ci hanno sconvolti.

Si sono recate alla tomba, hanno visto angeli», ma di lui non ci sono notizie attendibili. Pare quasi che lo reputassero irreversibilmente defunto. A questo punto Gesù depone la maschera e comincia a scoprire la carte, vagolando didatticamente fra le Scritture anticotestamentarie per mettere a fuoco il profilo del vero messia.
C’è in questo racconto, come in altri, un fatto curioso. Chi dei due parla? Parlano all’unisono? Sembra poco probabile, perché avrebbero dovuto leggersi reciprocamente nel pensiero, cosa impossibile agli uomini. È una finzione letteraria per segnalare che entrambi erano concordi nella versione dei fatti? Non si sa. Almeno una parte della loro risposta – quella delineante la vicenda pasquale di Gesù – ha l’aria di una nascente professione di fede, un po’ come se i due avessero recitato in anticipo un frammento del Credo che riceverà la sua formulazione definitiva solo nel concilio di Costantinopoli (381).

Considerato lo sfondo liturgico dell’intera narrazione, in cui emergono una liturgia della parola e una liturgia eucaristica, l’ipotesi è per lo meno seducente. Osta il fatto che il Credo è entrato nella messa solo nel 1014 per decreto di papa Benedetto VIII, sgonfiato dalle insistenze del santo re Enrico II. Il Credo infatti era rimasto fino allora formula esclusivamente battesimale e probabilmente il Pontefice voleva che rimanesse tale. Ma ha voluto fare un piacere a un brav’uomo.