Riciclaggio Pasquale

Di questi tempi avremmo svariati motivi per riflettere sulla malvagità umana, ma preferisco non farlo. Nel mese aprile cade la Pasqua che ci invita a considerazioni più rasserenanti.

 La Pasqua è evento di risurrezione, sulla quale è opportuno ragionarne un po’, almeno quel poco che possiamo. Dobbiamo partire da una concatenazione concettuale a retromarcia: per risorgere è necessario essere morti, per essere morti è necessario essere nati. E’ come dire che non risorgono se non i morti e non muoiono se non i nati. Analogamente capita che per addormentarsi occorre essere svegli e per svegliarsi occorre essere addormentati.

In queste banalissime osservazioni si dà per scontato ciò che non lo è affatto: la nascita non la ricordiamo ma ci è nota; la morte non ci ha ancora agguantati ma abbiamo visto dei morti. Se sappiamo cosa vuol dire nascere e morire, non sappiamo che cosa vuol dire risorgere. Non ci resta che interrogare la Bibbia.

Va detto innanzitutto che la risurrezione ha una storia lunga, perché comincia a battere colpi nell’Antico Testamento: i profeti Elia ed Eliseo, per non farsi torto reciproco, hanno risuscitato almeno un morto a testa (1 Re 17,17-24; 2 Re 4,18-37). Eliseo aveva un carattere un po’ suscettibile (cfr 2 Re 2,23-25) e non avrebbe tollerato di essere surclassato del suo maestro Elia. Inoltre profezie tardive, come quella di Daniele (12,1-3) e un breve intarsio posteriore in Isaia (26,19), nonché atrocità e iniziative religiose documentate nelle vicende dei Maccabei (2 Mac 7,23; 12,42-45), danno per certa una risurrezione futura, alla quale Gesù stesso sgombera il campo, facendo tutte le risurrezioni che aveva a portata di mano e sentenziando a favore della risurrezione (Mt 22,23-33). Si tratta di casi molteplici: la figlioletta di Giàiro (Mc 5,35-43), un brav’uomo capo di sinagoga; il figlio della vedova di Nain (Lc 7,11-17) e la meticolosamente narrata risurrezione dell’amico Lazzaro (Gv 11,38-44). Come se tutto ciò non bastasse, Matteo ci dice che nella circostanza della morte di Gesù, parecchi defunti si sono visti a passeggio per Gerusalemme, cessando pertanto di essere defunti (Mt 27,51-53).

Anche agli apostoli è scappata qualche risurrezione. San Pietro ha richiamato in vita una laboriosa signora che aveva lasciato grande rimpianto (At 9,36-41); e san Paolo aveva riciclato in vita uno spericolato ragazzetto che nottetempo, preso dal sonno forse perché Paolo la tirava un po’ per le lunghe, cadde dal davanzale della finestra, terzo piano, dove si era seduto in soporoso ascolto (At 20,9-12).

Questa è un po’ la massa documentale che ci fornisce la Bibbia. Non è che la faccenda sia priva di problemi. Tutti questi personaggi sono poi ri-morti. Si tratta dunque di una risurrezione a breve termine, quasi per significare che la soluzione “anastatica” al problema della morte non è poi così strampalata. Preciso che in greco anàstasis è la risurrezione e l’aggettivo “anastatico” non si riferisce  alle fotocopie ma denota ciò che ha a che fare con la risurrezione. Inoltre sorprende un po’ il fatto che nessuno di quei risorti provvisori abbia biascicato qualcosa dell’Aldilà o comunque non ci siano pervenute informazioni. L’ipotesi a parer mio più probabile è che non abbiano fatto in tempo a giungere a destinazione oltretombale, anche se per vero dire Lazzaro è rimasto morto quattro giorni (Gv 11,39). Può darsi che abbiano avuto rigorosa consegna del silenzio.

I primi, per quanto a noi risulta, a porsi seriamente il problema sono stati quelli di Corinto, che per filosofia e cultura, erano lontani mille miglia da prospettive anastatiche. Siccome Paolo aveva captato che la faccenda della risurrezione faceva problema, mobilitando ampie testimonianze (1 Cor 15,3-8), ne certifica l’evento in riferimento a Cristo, come dire: “Guardate, cari miei, che non vi ho contato una balla”. Probabilmente si aspettava perplessità sul tema: infatti già ad Atene, quando sfiorò il tasto risurrezione, si prese sghignazzate in faccia (At 17,32). Mettendosi nei panni dei Corinzi, dice, vivacizzando la prosa: «Ma qualcuno dirà: Come risorgono i morti? Con quale corpo verranno?» (1 Cor 15,35).  E la risposta che dà in prima battuta si pone in termini di ovvietà, dicendo in pratica che la trafila morte/risurrezione è quasi più naturale che soprannaturale. Ascoltiamolo: «Stolto! Ciò che tu semini non prende vita se prima non muore. Quanto a ciò che semini, non semini il corpo che nascerà, ma un semplice chicco di grano o di altro genere e Dio gli dà un corpo come ha stabilito» (2 Cor 15,36-38). Come dire: dallo sfacimento naturale del seme, equiparato alla sua morte, nasce la pianta desiderata.  Dunque anche in natura capita qualcosa di simile a morte/risurrezione. Siamo nel campo delle analogie, ma mi pare che l’idea resista, veicolando anche consapevolezza di provvisorietà: perché il seme è provvisorio in vista della pianta, così come la nostra scialba vita attuale è provvisoria rispetto alla sfolgorante vita futura ed eterna. E’ per lo meno un argomento che vale a mettere in fuga il sospetto di assurdità della risurrezione.

Poi elenca vari tipi di corpi, organici e astronomici: «Non tutti i corpi sono uguali. Altro quello degli uomini e altro quello degli animali; altro quello degli uccelli e altro quello dei pesci. Vi sono corpi celesti e corpi terrestri, ma altro è lo splendore dei corpi celesti, altro quello dei corpi terrestri. Altro è lo splendore del sole, altro lo splendore della luna e altro lo splendore delle stelle» (2 Cor 15,39-41). Per Paolo, che nulla sapeva di chimica e fisica, c’era differenza carnale nel mondo animale. Il differente splendore degli astri presuppone per lui una differente corporeità degli stessi. E aggiunge: «Così anche la risurrezione dei morti: è seminato nella corruzione, risorge nell’incorruttibilità; è seminato nella miseria, risorge nella gloria, è seminato nella debolezza, risorge nella potenza; è seminato corpo animale, risorge corpo spirituale» (2 Cor 15,42-44a). Qui sta il punto: non è contraddittorio parlare di corpo spirituale? Eppure Paolo rincara la dose asserendo, come se si trattasse di cosa ovvia: «Se c’è un corpo animale, vi è pure un corpo spirituale» (1 Cor 15,44b). Aveva anche accennato in precedenza (1 Cor 10,4) a una “roccia spirituale”! Dinanzi a dichiarazioni così impavide e madornali non ci resta che sventolare bandiera bianca e arrenderci. Dante forse ci dà una mano quando parla di «vanità che par persona» (Inf. VI 36) facendoci pensare a profili umani del tutto privi di consistenza al tatto. Non è che ci aiuti gran che, al massimo lubrifica un po’ la nostra fantasia, ma il problema resta.

Non ci rimane che aiutare la nostra mediocre intelligenza con l’umiltà.  Se tutte le risorse divine fossero prevedibili e comprensibili, Dio sarebbe scontato e noioso.  Anche il Vangelo ci documenta in qualche modo il Risorto attrezzato di corpo spirituale, tenendone una gestione secondo le nostre meningi contraddittoria: entra nel cenacolo a porte chiuse senza ammaccarsi (Gv 20,19) e poi si offre al tatto dell’incredulo Tommaso (Gv 20,27). Dà il colpo di grazia alle ultime resistenze, ancora sfidando il tatto (Lc 24,39), chiedendo da mangiare e mangiando (Lc 24,41-43).

Tornando a san Paolo, pare evidente lo sforzo di “declassare” nobilmente la risurrezione, confinandola in qualche modo nei ritmi di natura. Se questa infatti offre manifestazioni analoghe, l’incredibilità della risurrezione si ammansisce a livello di plausibilità. Possiamo fare anche un altro ragionamento, da me più volte praticato specie nelle omelie funebri. La risurrezione è un postulato della redenzione: se Gesù è salvatore dell’uomo – con quanto c’è di imperituro, definitivo e globalizzante nel concetto di salvezza – è indispensabile che anche il nostro corpo, al quale siamo affezionati, possa essere riciclato verso il meglio. E questo riciclaggio lo chiamiamo risurrezione.