II domenica di Avvento Mt 3,1-12

 
 

– Giovanni Battista, profeta di Cristo –

a cura di Mons. Alberto Albertazzi –

«In quei giorni…». Quali? Gli evangelisti amano l’indeterminazione cronologica, a eccezione di Luca che inquadra la figura di Giovanni Battista nell’orizzonte storico-politico dell’epoca, tirando in ballo nientemeno che l’imperatore Tiberio Cesare e altri scagnozzi locali. A Matteo, più che il quando, interessa il fatto e manda in scena nel deserto di Giuda quel “numero unico” di Giovanni Battista. Unico davvero perché almeno dai tempi di Elia (secolo IX a.C.) non si vedeva più un personaggio così pittoresco; tanto che l’intellighentia rabbinica lo sospettava un Elia di ritorno (Mc 9,11). Matteo lo descrive come una specie di Tarzan, drappeggiato non da “Prima della Scala” e frugalissimo: suo menù erano cavallette e miele selvatico. Sobrio ma solenne è il suo messaggio introitale: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino». Dà l’imbeccata a Gesù che, prima di librarsi in proprio nelle otto beatitudini (Mt 5,1-12), si mette in fotocopia a Giovanni Battista ripetendo queste stesse parole (Mt 4,17).

Matteo, ebreo che scrive per ebrei, per scrupolo rabbinico da secondo comandamento, parla di regno dei cieli, quasi mai (6,33) di regno di Dio come invece fanno Marco e Luca. Matteo e colleghi, ritoccando un po’ la probabile punteggiatura (che non c’era), identifica il Battista con un misterioso e grandioso personaggio annunciato da Isaia (40,3) che, con un grido da Anas, impone di spianare nel deserto la strada al Signore. Ecco perché il Nostro è noto come il “Precursore”, tanto che un prefazio di avvento gli riconosce un punto di merito rispetto agli altri profeti: questi si limitarono ad annunciare il Messia per strada, mentre Giovanni lo segnalò arrivato (una buona volta!).

Fatto sta che Giovanni, forse anche per il suo modo di presentarsi non propriamente da profeta-dandy, ha successo e molti accorrono a lui per sottoporsi al suo battesimo, riconoscendosi peccatori. Fra i molti spuntano anche farisei e sadducei, dinanzi ai quali Giovanni non si intimidisce, ma li apostrofa delicatamente come «razza di vipere», con quanto c’è di insidioso nel pericoloso rettile. E soprattutto a loro raccomanda con vigore di fare «un degno frutto della conversione», senza millantare ascendenze illustri risalenti sino ad Abramo, inteso come garantito parafulmine. Dio se ne infischia, perché se ha voglia può suscitare figli ad Abramo anche dalle pietre che quei sussiegosi personaggi stavano calpestando. E poi annuncia il dislivello battesimale: il suo è uno scialbo battesimo dato con acqua, unico detersivo di quei tempi prechimici, quindi idoneo a significare un bucato interiore. Ma Chi viene dopo di lui lo sovrasta sovrumanamente, perché «battezzerà in Spirito Santo e fuoco».

Con questa espressione si direbbe che Giovanni Battista, ormai avviato al declino, non per raggiunti limiti di età ma per raggiunta pienezza dei tempi (cfr Gv 3,30), già intravveda la pentecoste. La nota penitenziale nella predicazione di Giovanni è marcata, ma si tratta di una penitenza «con occhi incerti fra il sorriso e il pianto» (Carducci), non di una penitenza militarizzata come quella del mercoledì delle ceneri che parla di «armi della penitenza». Lo spirito penitenziale dell’Avvento è meno austero.

Più che penitenza rigorosa propone quella prudenza spirituale che asceticamente si chiama vigilanza, più volte richiamata da Gesù come atteggiamento trepido e accorto (cfr. Mt 24,42; 25,13).