5ª domenica t.o. Mt 5,13-16

 
 

Siamo sale e luce se Dio è in noi –

a cura di Don Luciano Condina –

Il vangelo di questa domenica propone la celebre immagine dei discepoli come «sale della terra» e «luce del mondo». Spesso si intende il brano come un’esortazione di Gesù ai discepoli affinché siano sale e luce, ma ciò non corrisponde a quanto si legge nel testo: Egli non dice «siate il sale… siate la luce», bensì «voi siete il sale della terra… voi siete la luce del mondo», usando il verbo al presente indicativo, non all’imperativo. La sottile distinzione non è affatto secondaria perché cambia la prospettiva interpretativa. Se leggessimo il testo come se il verbo fosse all’imperativo, allora saremmo chiamati a impegnarci a dare sapore, a illuminare, a mostrare le nostre opere, a differenza dei cattivi che ne compiono ben altre. Ci troveremmo, così, di fronte a una lettura neopelagiana: con le nostre opere salviamo il mondo.

Il verbo al presente invece – «voi siete» – ci annuncia che i discepoli sono sempre e comunque sale e luce. Il primo ha la funzione essenziale di insaporire – in Lc 14,35 Gesù afferma che «il sale è buono» – ma chi è iperteso sa bene di non doverlo usare per non aumentare la pressione. Chi comincia a mangiare insipido scopre che, in realtà, del sale si può fare a meno, che non è necessario, perché già presente nei cibi in piccole quantità. Allora il sale non è necessario, ma è buono: siamo il buono del mondo, i cristiani vivono il sapore buono della vita, che senza sale diventa solo triste sopravvivenza, un triste «tirare a campa’». Che bello vedere un cristiano autentico emanare il profumo della vita saporita che solo Cristo può dare e che tutto il mondo ammira; mi viene in mente il funerale di madre Teresa di Calcutta a cui hanno partecipato tutti i potenti della terra.

Ma se il sale non insaporisce è come la sabbia, inutile in cucina; è come un cristiano scialbo, triste, insipido, iettatore. Essere dono significa essere cibo, vivere per sfamare qualcuno; ma se il cibo non ha sapore è da accantonare. Il sapore o ce l’hai o non ce l’hai: puoi far finta di mimare, scimmiottare la gioia, l’amore, la carità fraterna, ma in realtà è solo roba appiccicata in superficie. Se non viviamo radicati a Cristo, a colui che dà il sapore, manifesteremo sempre un cristianesimo di facciata, quello che il mondo disprezza, a differenza del cristianesimo autentico, che il mondo teme.

I discepoli sono anche «luce del mondo», come una città posta sopra un monte o una lampada poggiata sul tavolo. La città in cima a un monte non decide se essere vista o meno, la si vede e basta. Essere luce non è un’opera nostra: la luce viene da Dio, il lucerniere, noi siamo ciò che Egli ci pone in essere; Egli accende la nostra luce e la pone sul candelabro, affinché essa risplenda. In quest’ottica i problemi che siamo chiamati ad affrontare non sono più tali, ma candelabri in cui può risplendere la luce che siamo. Il candelabro di Cristo fu la sua croce; infatti il sole si oscurò e, da quel momento, Egli fu l’unica vera luce del mondo: sollevato da terra, innalzato – come una città sul monte – perché tutti lo guardassero. Ognuno di noi ha un candelabro, il proprio luogo in cui ardere per fare luce e ognuno di noi può scoprire che l’opera di Dio in noi è metterci in cima a un monte – che simboleggia le cose della nostra vita – in cui poterci abbandonare con fiducia a Lui.

Essere sale e luce della terra è la nostra missione, ciò a cui serviamo.