XXXIII domenica del Tempo ordinario

 
 

A cura della Fraternità della Trasfigurazione

Già nelle parabole che abbiamo ascoltato nei mesi scorsi in cui si parlava della vigna il proprietario veniva presentato come qualcuno desideroso di trovare collaborazione, di condividere con altri l’impegno di far fruttare la sua proprietà. Nel racconto di oggi viene presentato un uomo, un padrone che sembra molto scaltro nel gestire i suoi beni tanto da apparire come uno che miete perfino “dove non ha seminato e raccoglie dove non ha sparso”. In questo modo egli è riuscito a crearsi una fortuna: i talenti che affida ai suoi servi corrispondono, infatti, a una somma ingente di cui egli può disporre. Non è però la capacità di far rendere il suo patrimonio la dote maggiore di quest’uomo; ciò che di lui impressiona positivamente è il modo di esercitare l’autorità. Egli non ha bisogno di tenere costantemente sotto controllo i suoi subalterni, ma può mettersi in viaggio e andarsene lontano affidando loro delle responsabilità dopo aver debitamente valutato la loro capacità di assumerle. Il fatto che all’ultimo servo abbia consegnato un solo talento mostra contemporaneamente la sua ottima capacità di discernimento e il suo tentativo di responsabilizzare, di far crescere tutti, anche quelli meno dotati. Ancora una volta la descrizione di questo padrone rimanda al secondo capitolo della Genesi dove Dio affida all’uomo la creazione, ponendolo nel giardino di Eden perché lo coltivi e lo custodisca (Cf. Gen 2,15). Nella seconda parte della parabola viene presentato il ritorno del padrone che, ancora una volta, si mostra estremamente autorevole: egli aveva responsabilizzato i suoi servi offrendo loro una somma da far fruttare e ora chiede conto delle loro azioni. In un’epoca permissiva come la nostra, dove si confonde la spontaneità con la libertà, quest’uomo potrebbe diventare un modello educativo per genitori, docenti, educatori; responsabilizzare, infatti, non comporta semplicemente dare all’altro la possibilità di usare di quanto gli viene concesso (beni, tempo, libertà…) ma significa anche avere il coraggio di chiedere conto dell’uso fatto di ciò che è stato ricevuto. Solo così si aiutano le persone a maturare, solo in questo modo si può instaurare un rapporto di reciproca stima. È infatti interessante notare come il padrone sappia elogiare i due servi definendoli buoni e fedeli. Il compenso per la loro capacità di assumersi le responsabilità affidate, inoltre, non è solo economico ma è anche affettivo: si tratta infatti di entrare in un rapporto di comunione per condividere e prendere parte “alla gioia del padrone”. Avviene qui una sorprendente trasformazione; il padrone si rivela non più solo padrone ma anche padre e i servi diventano figli, perché è proprio ai figli che vengono offerti i due doni più preziosi di cui l’esistenza può arricchirci: la stima e l’affetto. E il terzo servo? Questi non è entrato in una dinamica di dono e ha vissuto di paure. Per tale motivo è incapace di riconoscere la bontà del padrone e ne percepisce solo la durezza, la severità. Di conseguenza la sua vita è gettata fuori dalla relazione, imprigionata nelle tenebre, che non simboleggiano un castigo ma rappresentano piuttosto la conseguenza del suo rifiuto, del suo modo di vivere fondato sull’autoprotezione e sul ripiegamento su di sé.