XXVI domenica del Tempo ordinario
A cura della Fraternità della Trasfigurazione
Tra il testo del Vangelo che abbiamo ascoltato domenica scorsa e quello odierno troviamo un’affermazione che può servire da chiave di lettura del brano di oggi: “I farisei, che erano attaccati al denaro, ascoltavano tutte queste cose e si facevano beffe di lui” (Lc 16,14). È proprio per loro, e anche per noi quando condividiamo il loro modo di vivere e di pensare, che Gesù narra questa parabola. Essa è strutturata in due tempi; nella prima parte viene descritto un uomo ricco, un uomo senza nome con cui tutti possiamo identificarci nella misura in cui riconosciamo in noi alcuni dei suoi atteggiamenti. Gesù ne evidenzia due particolarmente rilevanti: l’importanza attribuita all’abito, simbolo dell’immagine e dell’apparenza, e al cibo, vale a dire alla soddisfazione dei bisogni primari. Indirettamente, però, il racconto lascia emergere un’altra caratteristica: la cecità interiore, ovvero l’indifferenza del ricco nei confronti degli altri, un’indifferenza tale che arriva fino al punto di non rendersi conto della presenza accanto a lui di un pover’uomo, presenza che attira invece l’attenzione dei cani. Come non cogliere in questo stralcio di storia un riflesso della situazione attuale, il ritratto di chi provoca consapevolmente la sofferenza altrui e di coloro, invece, che non se ne curano e rimangono insensibili e disinteressati? Per Dio, al contrario, quella è una sua creatura, una persona, della cui povertà è consapevole e che ha un’identità e, di conseguenza, un nome: Lazzaro. Nella seconda parte della parabola la scena cambia. Lazzaro muore e il testo dice che “fu portato dagli angeli accanto ad Abramo”; la sua sofferenza, vissuta con la docilità e la pazienza di uno che si accontenta delle briciole cadute dalla tavola dell’altro, capovolge le sorti ed ecco che Lazzaro si trova in un luogo di serenità e di pace. Ben diverso è il destino del ricco: lui che “ogni giorno si dava a lauti banchetti”, ora supplica Abramo per avere anche solo una goccia d’acqua. Non si deve tuttavia ritenere che il testo intende descrivere quanto avverrà dopo la morte; esso vuole piuttosto mettere in risalto le possibili gravi conseguenze dei nostri comportamenti. Nel corso della sua vita l’uomo ricco ha semplicemente cercato di appagare dei bisogni superficiali e non ha ascoltato la sete profonda di amore che lo abitava: amore da ricevere e da donare. Ora non può sfuggire a questa sete, che diventa così per lui fonte di grande sofferenza. In questa nuova situazione il ricco si rende conto della presenza di Lazzaro e ne riconosce il nome; egli, però, non sembra né consapevole né tantomeno addolorato per il male che gli ha inferto, ma lo considera semplicemente un mezzo per lenire il suo dolore. L’atteggiamento irremovibile attribuito ad Abramo, a cui il ricco si rivolge nel tentativo fallimentare di saziare la sua sete ormai inestinguibile, è semplicemente un modo per affermare una verità fondamentale: noi siamo responsabili del male che commettiamo, un male che ha conseguenze non solo per gli altri ma anche per noi stessi. Esso non si cancella con un colpo di spugna, ma scava invece al nostro posto la fossa della nostra infelicità. L’ultima parte della parabola, in cui l’uomo ricco domanda ad Abramo di andare a mettere in guardia i fratelli rispetto ai drammatici esiti di un comportamento sbagliato e il conseguente rifiuto, ha anch’essa un importante significato: noi siamo responsabili delle dolorose ripercussioni sugli altri dei nostri comportamenti, poiché su questa terra abbiamo tutti i mezzi necessari per comprendere ciò che è bene e ciò che è male, per capire ciò che rende ricca e fruttuosa la nostra esistenza, sapendo anche che tra questi mezzi la Parola di Dio ha il primo posto come fondamentale scuola di vita.