Terza domenica di Quaresima

 
 

a cura della Fraternità della Trasfigurazione

Ancora una volta il Vangelo della domenica cambia collocazione geografica: siamo passati dal deserto all’alto monte e oggi ci troviamo invece in Samaria, a Sicar, dove Gesù nell’ora più luminosa del giorno siede presso il pozzo di Giacobbe. Gli esegeti sostengono che la traduzione precisa sarebbe “sopra il pozzo”, quasi a identificare la sorgente di acqua viva con la persona del Cristo. Qui arriva una donna ad attingere acqua. Romano il Melode, un poeta del VI secolo, di lei scrive: “Abituata ad attingere alla vita come una spugna, uscì portando la sua brocca, e ritornò portando Dio”. L’immagine della spugna è estremamente efficace ed evocativa; essa rimanda all’intensa sete di questa donna che cerca di “risucchiare”, di assorbire dalla vita quanto potrebbe placare la sua arsura. Il cospicuo numero di uomini – ben sei – incapaci di soddisfare il suo bisogno di affetto, evidenzia in modo implicito che il desiderio umano è molto più profondo: è quell’abisso che chiama l’abisso di Dio, di cui parla il salmo 42. L’esperienza frustrante di questa donna, la sua insoddisfazione sono anche per noi invito alla riflessione. Forse pure dentro di noi riconosciamo la presenza di una spugna che cerca di mitigare la sua naturale ingordigia, appropriandosi di quanto si illude possa procurarle la felicità a cui aspira. Nello stesso modo anche noi possiamo ritrovarci insoddisfatti, poiché ci accontentiamo di bere acque superficiali, quelle proposte e offerte dal mondo circostante, ed evitiamo di attingere alle profondità della nostra sorgente. Il pozzo può apparire così il simbolo della nostra interiorità, ben più profondo rispetto ai nostri bisogni inconsistenti a cui siamo però tentati di fermarci; di essi vogliamo accontentarci in quanto dimentichiamo che un po’ più in basso zampilla un’altra acqua ben più trasparente, molto più fresca, limpida, vivace: l’acqua dello Spirito che ci è stato donato nel battesimo, la sola che può appagare i nostri desideri più intimi e veri. Non bastano, infatti, i cinque mariti e l’attuale compagno a saziare la sete di questa donna, simbolo della nostra umanità. Non è nemmeno sufficiente una religiosità basata su un culto esteriore, dove si disquisisce su dove sia più opportuno adorare Dio, se sul monte oppure in Gerusalemme. È l’intimo del cuore il luogo in cui siamo chiamati ad adorare; non è, infatti, l’esteriorità dei gesti, stigmatizzata da Gesù quando rimprovera l’ipocrisia di chi prega solo per essere visto e ammirato dagli altri (cf Mt 6,5), che ci avvicina a Dio. È piuttosto “nel segreto”, nel pozzo smisurato dell’anima che siamo invitati ad accogliere il “dono di Dio”, la sua offerta di entrare in relazione con Lui. È di questa sete che parla Gesù rivolgendosi alla donna samaritana. La sete di Dio, di Colui che anela a entrare in contatto con noi per offrire all’uomo il dono – preziosissimo e unico – della relazione con Lui; una relazione intima e fiduciosa dove la nostra umanità, di cui la donna è il simbolo, potrà scoprirsi non più sola ma sposa amata, figlia custodita dall’amore del Padre. Dio ha sete della nostra sete, come Gesù rivelerà anche dall’alto della croce esalando l’ultimo respiro (cf Gv 19,28). Noi abbiamo sete di Lui anche se, attingendo come spugne alle acque superficiali della nostra interiorità, non sempre sappiamo ammetterlo. La Quaresima, tempo di digiuno e di silenzio, ci renda capaci di riconoscere la vera sete, intensa e inesauribile che ci abita e sia per noi invito ad attingere all’unica sorgente vivace e inestinguibile: il legame illacerabile tra Dio e noi, dove ci scopriamo amati e capaci di amare.