Terza domenica di Pasqua

 
 

A cura della Fraternità della Trasfigurazione

L’episodio dei discepoli di Emmaus dal punto di vista stilistico si colloca tra i “racconti di riconoscimento”, quei racconti dove si crea uno scarto tra quanto il lettore sa della storia narrata e ciò che invece conoscono i protagonisti. Questa tecnica permette di dare maggiore risalto all’itinerario interiore che i discepoli devono percorrere prima di riconoscere Colui che cammina accanto a loro. Vediamo i due mentre conversano e discutono lungo la strada, quando Gesù si avvicina e cammina con loro. Essi non lo riconoscono, ma il suo procedere lungo la via è per il lettore, che conosce i fatti, il segno della vicinanza del Risorto accanto ai suoi discepoli soprattutto nei momenti di difficoltà. Durante il percorso Gesù pone loro una domanda; da vero maestro sa che gli interrogativi sono necessari per far nascere dubbi in merito alle proprie certezze e smantellare schemi mentali rigidamente fissi. Il lettore sarà forse tentato di sorridere guardando i due che narrano la storia a colui che ne è il protagonista trattandolo come “l’unico forestiero in Gerusalemme”. Egli, però, è già al corrente del fatto che i loro occhi erano “impediti di riconoscerlo”. Ed è proprio questa cecità che pone i due viandanti in una posizione paradossale: essi definiscono Gesù con il nome di profeta “potente in opere e in parole”, ma dimostrano di non credere al contenuto delle sue profezie. Egli, infatti, aveva loro preannunciato che il Figlio dell’uomo sarebbe stato consegnato ai pagani, insultato e ucciso, ma il terzo giorno sarebbe risuscitato (cf Lc 18,33). Per tale motivo non avrebbero dovuto mostrarsi sconcertati di fronte ai drammatici fatti avvenuti due giorni prima e nemmeno sconvolti dalle parole delle donne, che all’orecchio del lettore suonano invece come un annuncio di risurrezione. Questa discrepanza tra due modi così diversi di interpretare lo stesso avvenimento deve interpellare anche noi rispetto a come ci accostiamo al mistero della Pasqua. Più volte nel Vangelo veniamo a contatto con una sorta di sordità da parte del discepolo che sembra proprio non sentire l’annuncio della morte e risurrezione del Signore. Solo due capitoli prima rispetto all’episodio di Emmaus, nel racconto dell’ultima cena Gesù parla della sua morte imminente. Proprio in quel momento i discepoli iniziano una discussione riguardante “chi di loro fosse da considerare il più grande” (Lc 22,24). Ecco la sordità di cui tutti, discepoli e lettori, possiamo essere affetti: il problema non è dato dal non sentire, bensì dal non ascoltare quanto fa paura perché mette in questione le nostre sicurezze, le ambizioni e soprattutto fa sentire vulnerabili. Il racconto di Emmaus aiuta tuttavia a comprendere che esiste un antidoto potente capace di vincere ogni nostra cecità o sordità: l’apertura all’altro. I discepoli di Emmaus accolgono il viandante anonimo e lo invitano insistentemente a rimanere con loro. Lo lasciano entrare nella loro vita e la sua presenza riesce a rompere le barriere create dalla loro lentezza e stupidità. Ora i loro occhi si aprono, così possono riconoscere nei gesti tipici del banchetto eucaristico Colui che il loro cuore ardente aveva già individuato quando conversava con loro lungo la via. Proprio in quel momento Gesù si sottrae però alla loro vista. D’ora in poi sarà la fede a rendere visibile la Sua presenza che continuerà a manifestarsi in particolare nell’Eucaristia e nelle Scritture.