Rimeditando il natale

Mi viene voglia di rimeditare il Natale, che si presta a trapanazioni mentali inesauribili. Sto parlando del Natale autentico, quello documentato dai Vangeli, non del natale “carnevalizzato”, che abbiamo visto anche quest’anno in barba alla crisi economica.

Voglio soffermarmi a ragionare sui nomi appioppati a Gesù ancor prima che venisse alla luce. L’angelo onirico, apparso in sogno a Giuseppe che non sapeva che pesci pigliare, lo rassicura e lo frastorna: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,20-21).

In  questo messaggio troviamo cose ovvie e cose meno ovvie. Ovvio è che, se qualcuno tra i due doveva nascere, non poteva che nascere da lei. Semiovvio è che il nome glielo avrebbe rifilato lui, secondo le usanze dell’epoca. Non gli rimane però margine di scelta, perché il nome è imposto perentoriamente dall’angelo. Quindi a Giuseppe rimaneva solo l’atto formale e burocratico di appioppargli quel nome, che peraltro gli si attagliava a pennello perché ha poi effettivamente salvato il “Suo” popolo (e non solo il Suo) dai suoi peccati. E’ risaputo infatti che Gesù significa salvatore.

Non è ovvio invece il meccanismo genetico. C’è di mezzo lo Spirito Santo a far sì che una donzella potesse partorire in stato di verginità. Matteo, abituato a centellinare con parsimonia le parole, nulla ci dice della reazione di Giuseppe, se non che prese con sé la sua sposa, come nulla fosse (Mt 1,24).  Non è difficile però immaginare che sia rimasto un po’ frastornato da un sogno del genere, che poi si è realizzato in pieno. A quei tempi ai sogni, e soprattutto a certi sogni, si credeva più che adesso. C’è nella Bibbia un altro Giuseppe, lui pure sognatore, che grazie ai suoi sogni, dopo avere passato guai non da poco, è diventato nientemeno che vice re d’Egitto (Gen 37,2-36).

Ma torniamo al nome di Gesù, che è il suo nome anagrafico: il nome da scriversi sulla carta d’identità se l’avessero già inventata. Questo nome nei Vangeli è molto ricorrente, in alternanza con vari altri appellativi: maestro, Signore, Figlio di Davide, Figlio dell’uomo. Quest’ultimo, coniato dal profeta Ezechiele (2,1) ed elevato di rango dal profeta Daniele (7,13), fu da Gesù particolarmente utilizzato in riferimento a sé, pur essendo stato  figlio soltanto di una donna, in quanto il ruolo maschile fu supplito dallo Spirito Santo.

Matteo nell’insolita vicenda vede la realizzazione di una profezia (Is 7,14), secondo la quale le cose sarebbero andate proprio così: «Ecco la vergine concepirà e darà alla luce un figlio. A lui sarà dato il nome di Emmanuele». Matteo aggiunge «che significa Dio con noi». Questo nome ricorre soltanto qui, poi è lasciato perdere e Gesù non viene più chiamato con quel nome, di cui ha pienamente inverato il significato.

Dunque due nomi: Gesù ed Emmanuele. Il secondo ha avuto ampia diffusione. Il primo invece è rimasto soltanto a Lui. Pochissimi, che io sappia, hanno usurpato questo nome così impegnativo. Va detto tuttavia che il nome uno non se lo sceglie: gli viene rifilato da più o meno illuminati genitori e, piaccia o non piaccia, se lo porta fin che campa. La traduzione italiana di Gesù, Salvatore, è invece largamente diffusa in certe regioni d’Italia. Entrambi i nomi definiscono Chi li portava insieme:  il primo nella Sua azione, il secondo nel Suo essere. Potremmo dire un po’ banalmente che Emmanuele è il nome essenziale, perché definisce l’essere di Gesù in quanto “Dio con noi”. Gesù invece è un po’ il nome professionale denotante quello che Gesù è venuto a fare, ossia a salvare l’umanità dai suoi peccati.

Se il peccato originale e tutti gli infiniti peccati da lui clonati fossero mancati, il Figlio di Dio si sarebbe incarnato lo stesso?  Cominciamo a dire che in nessun caso si sarebbe chiamato Gesù, in quanto non ci sarebbe stata necessità di salvare niente e nessuno, se non soltanto da eventuali calamità naturali. Ma per questo basta la protezione civile.

Personalmente reputo che, pure in assenza di peccato, ci sarebbe stato l’Emmanuele, ossia il “Dio con noi”, non però come Gesù, ossia salvatore.  Come dire: visto che l’incarnazione ci sarebbe stata comunque e che quell’impiastro dell’uomo è andato a ficcarsi nei guai, l’incarnazione si verifica in ogni caso, ma con una funzione aggiuntiva: quella di togliere l’uomo dai pasticci in cui per insipienza è andato a ficcarsi. Perché oso sussurrare che l’incarnazione ci sarebbe stata comunque?  Per due motivi. Il primo: il nome Emmanuele mi pare troppo programmatico per essere eventuale. Era stabilito comunque che si sarebbe verificato un “Dio con noi”. Non bastava la sbiadita “immagine e somiglianza” con Dio, nella quale i nostri progenitori sono stati confezionati (Gen 1,26). Era già qualcosa, ma si poteva fare di più. Il ritratto è sempre evocativo della persona, ma non è la persona. Avere in casa la fotografia di mio padre mi fa piacere, ma se ho in casa mio padre in modo più consistente del cartaceo, sono più soddisfatto.

E poi, secondo motivo, il colpo conclusivo a favore dell’inutile tesi che sto sostenendo arriva dal prologo del Vangelo di Giovanni (1,1-18). Vi si parla del Verbo che era in principio, che era presso Dio e che era Dio e che un bel giorno si è fatto carne e noi abbiamo contemplato la sua gloria (Gv 1,1-3.14). In questo statuto programmatico («l’alto preconio che grida l’arcano / di qui la giù sovra ogni altro bando», DANTE, Paradiso XXVI 44-45), si tace completamente ogni riferimento al peccato. Un po’ come se il Figlio di Dio si fosse incarnato, essendogli venuta voglia, e non per dare una mano all’uomo inguaiato fino al collo. Incarnazione dunque a titolo completamente gratuito, per potere contemplare il divino nell’umano. Il prologo in questione si conclude infatti così: «Dio, nessuno l’ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1,18). Nell’ultima cena Gesù si dilungava a parlare del Padre ai discepoli e Filippo, che moriva dalla voglia di poterLo vedere una buona volta, ne fa esplicita richiesta al maestro. Questi gli risponde: «Filippo, che ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,8).

Tutto ciò, se è plausibile, mi sembra molto bello. Un’incarnazione gratuita, non rigorosamente necessaria, finalizzata non a salvezza ma a rivelazione. Dio vuole farsi conoscere dall’uomo e si “umanizza” anche Lui. Ciò significa che dell’uomo era ben soddisfatto, gli era riuscito bene. Nel primo capitolo della Genesi abbiamo la soddisfazione cadenzata, quasi quotidiana, di Dio per ciò che ha prodotto nelle singole giornate lavorative: «E Dio vide che era cosa buona» (Gen 1,10.12.18.25). Alla fine, dopo avere congegnato anche l’uomo, Dio vide tutto ciò che aveva creato era cosa “molto” buona (Gen 1,31). Teniamo conto che nella lingua ebraica il bene tende a confondersi col bello. Non è certo forzata la traduzione «e Dio vede quanto aveva fatto, ed ecco era cosa molto bella». L’uomo gli è talmente piaciuto – bontà sua! – che nell’incarnazione ha voluto immedesimarsi in lui.  E nella stessa logica, essendosi l’uomo da subito rivelato criminale, col crescendo da un pomo arraffato a un omicidio (Caino accoppa Abele) -, l’incarnazione già programmata, si è finalizzata anche a redenzione (cfr Gv 3,16).

Grande affollamento quest’anno alle confessioni natalizie. In tutto fra mattina pomeriggio sono passati ben 16 penitenti! E gli altri? O non hanno fatto peccati o sono andati a confessarsi altrove !