Quarta domenica del tempo pasquale

 
 

A cura della Fraternità della Trasfigurazione

Il Vangelo di questa domenica è ricco di immagini che si sovrappongono e talvolta si contrastano. I ladri e briganti sono coloro che entrano nel recinto dalla parte sbagliata e si trovano lì per compiere un furto; per tale motivo sono definiti “ladri”; di essi è anche detto che sono venuti prima di lui. Con questo “prima” Gesù naturalmente non si riferisce ai profeti e tanto meno al Battista, la cui predicazione era tutta orientata al Cristo. I ladri e i briganti sono piuttosto quelli che si pongono in alternativa rispetto a Lui, coloro che impongono al gregge un giogo pesante, fatto di regole e di prescrizioni, e rischiano così di allontanarlo o di rubarlo a Dio. Gesù, al contrario, in un discorso di rivelazione per ben due volte introdotto con un duplice Amen, si autodefinisce come “la porta”. Si tratta di un’immagine che al lettore potrebbe apparire asettica, poco dinamica se paragonata alle altre due, ma proprio il contrasto tra questa impressione e il tono solenne della proclamazione può indurre a “scavare” in questo simbolo per scoprirne il senso. Che cos’è la porta se non qualcosa che si può aprire perché la persona passi da un luogo all’altro? La porta è l’opposto del muro che non è penetrabile e contro cui si rischia di sbattere; essa, al contrario, permette di spostarsi da uno spazio all’altro, fa entrare in un posto nuovo e ritornare dove si era prima. In che senso, allora, Gesù si autodefinisce come “porta”? Ora è forse più facile comprendere quanto il simbolo sia appropriato: nella sua divino-umanità Gesù è colui che ci introduce nel mondo di Dio e nello stesso tempo in quello degli uomini. Egli, infatti, è il mediatore per eccellenza, è “il ponte lanciato tra cielo e terra”, come amava definirlo Caterina da Siena; continuamente Gesù rimanda oltre sé stesso per farci conoscere il Padre. Che cosa vuol dire, infatti, “sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” se non che egli ci offre in modo smisurato qualcosa che fa della nostra esistenza una vita vera, ricca, piena, una vita che vale davvero la pena di essere vissuta? Ed essa consiste in primo luogo in una vita da figli, in un legame di comunione con il Padre, nostra origine e fine ultimo della nostra esistenza, in cui Egli ci introduce. All’interno di questa relazione scopriamo il senso del nostro esistere, ci sappiamo custoditi e amati, sperimentiamo la fiducia e la speranza di fronte all’orizzonte che per noi si dilata sull’eternità. Nulla di tutto ciò sarebbe possibile se Gesù, porta aperta sul mondo di Dio, non favorisse questa comunione tra la terra e il cielo e da buon pastore non ci costituisse come gregge, come comunità di fratelli in cammino verso il Padre sotto la sua guida.
Gesù non è “porta” solamente perché ci introduce nel mondo Dio, ma anche in quanto ci apre in modo nuovo a quello degli uomini. Egli ci aiuta a entrare nell’interiorità dell’altro superando l’inimicizia, l’ostilità, l’incapacità a perdonare, l’atteggiamento giudicante per riconoscerlo come fratello. Tuttavia, come scrive un monaco della Chiesa d’oriente, “per passare attraverso di lui bisogna adattarsi alle sue dimensioni. Bisogna ingrandirsi e dilatarsi, bisogna abbassarsi e ridursi alla misura di Cristo”. Solo rinunciando al nostro narcisismo, agli atteggiamenti autoreferenziali che ci caratterizzano, potremo quindi attraversare quella porta che ci trasfigura in figli e fratelli.