Pastocrazia

 
 

a cura di Mons. Alberto Albertazzi

alberipazzi@gmail.com

 

“PASTOCRAZIA”

Da pascere, che vuol dire far pascolare, deriva pastore che è colui che conduce al pascolo. Da pastore a loro volta clonano pastorale e pastorizia. Quest’ultima è l’allevamento degli ovini (1). La pastorale invece è la tecnica ecclesiastica di allevamento dei cristiani, ma è anche soprannome di composizioni musicali di Beethoven (2) e forse di altri.

A noi interessa la pastorale in quanto allevamento cristiano. Perché l’allevamento dei cristiani si chiama pastorale? Perché alcuni scrittori della Bibbia interpretano il rapporto fra Dio e l’uomo sullo sfondo bucolico di pecore e pastore, essendo la pastorizia da quelle parti e a quell’epoca attività dominante. Forse il primo a camuffare pastoralmente l’attenzione di Dio verso il popolo d’Israele è stato il profeta Ezechiele (34,1-31), in un severo e accigliato sermone, nel quale i pastori di Israele vengono da Dio severamente scazzottati per comprovata indegnità. Famosissima inoltre è l’allegoria del buon pastore che leggiamo nel Vangelo di Giovanni (10,11-18), ove Gesù si auto-proclama con piena legittimità “il buon pastore”, con quanto c’è di assoluto e irrepetibile nell’articolo determinativo “il”.

Da questi e altri precedenti biblici l’arte di educare i cristiani a essere veramente tali ha preso il titolo di pastorale. Riassumendo possiamo dire che la pastorizia è allevamento di pecore, pastorale è allevamento di uomini in direzione cristiana: ove, fuori di metafora, pastori sono i sacerdoti (vescovi e preti) e pecore sono i laici. I diaconi mi sembrano in una intermedia posizione di collegamento. Ma Dio in ogni caso si mantiene pastore supremo e insostituibile. Tutti gli altri sono intercambiabili, secondo il detto “morto un papa se ne fa un altro”; e in abissale subordine.

Il momento pastorale nella Bibbia si esprime anche poeticamente da varie parti, ma in maniera suprema nel verdeggiante salmo 22, arci-stra-noto per le sue rassicuranti parole iniziali: «Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla». E’ un salmo particolarmente versatile, calza per i vivi e per i morti come sanno i frequentatori dei funerali. Vi si respira una pastorale tranquilla, serena, riposante, che evoca la montana beatitudine delle greggi al pascolo. Già l’inizio sopra riportato ha il tono di una tranquilla ninna-nanna in uno sconfinato abbandono in Dio, che si percepisce nelle soddisfatte parole «non manco di nulla». Se Dio è il pastore, tutto ciò che è essenziale è garantito. Abbiamo poi statica e dinamica: «su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce». Riposo dunque in verdeggianti ambienti montani; e dinamica – «mi conduce» -, ma non al macello come l’agnello mansueto e sventurato di Isaia 53,7, bensì ad acque tranquille, che offrono frescura e dissetante beveraggio. In questo salmo le valli oscure, ossia i tornanti più penosi della vita, non spaventano perché Dio è il pastore. E così avanti ancora per un paio di strofe di cullante serenità nelle quali affiorano, lette col senno di poi – non dimentichiamo che siamo nell’Antico Testamento, – i sacramenti che confezionano il cristiano nella sua interezza: il già visto «ad acque tranquille mi conduce», fa pensare al battesimo; «davanti a me tu prepari una mensa … il mio calice trabocca», evoca un’esuberanza eucaristica; «ungi di olio il mio capo», olezza di cresima. E si conclude con un’evaporazione verso l’eternità: «abiterò nella casa del Signore per lunghi giorni». E’ stupefacente come questo salmo con un dimesso vocabolario riesca a paludare supreme realtà soprannaturali: è la magia letteraria dei salmi, o di certi salmi, fra i quali primeggia quello ora esaminato per ampie e veloci falcate. Ne esce una pastorale schietta, vitale, lieta, in cui la natura dà manforte all’uomo insediandolo in una limpida cornice ambientale, e senza perdere di vista l’originaria matrice bucolica della pastorale. In fondo, strizzando il salmo che abbiamo visitato, ci si trova fra le mani la percezione che il salmista gongoli nella consapevolezza che Dio rimane a fianco dell’uomo purché non ne venga scelleratamente sfrattato dalla mentalità e dal linguaggio.

La pastorale che ci siamo recentemente inventata è la pastorale degli uffici, delle riunioni, dei ciclostilati, dei computer, delle convocazioni, dei programmi e dei congressi. Tutto ciò trasmette la sensazione di una pastorale ansiosa in cui protagonista e artefice è l’uomo; diametralmente opposta a quella del salmo, che con toni tranquilli riconosce il primato e l’iniziativa a Dio, bonificata dal proverbio “aiutati che Dio ti aiuta”.

Lasciamo allora l’aureo vocabolo “pastorale” al salmo 22 e a mentalità che gli siano coerenti. Propongo pertanto di denominare il nostro antropocentrico dimenarci, ove le barbosissime scartoffie prevalgono sull’abbandono nelle mani di Dio, con l’etichetta pastocrazia, che figlia da pastorale e da burocrazia.

Una Chiesa nata come pusillus grex (=piccolo gregge, Lc 12,32), e poi ingigantita per volontà di Dio e per un corso favorevole dei tempi, non deve essere in affanno se perde consenso proprio laddove è più attecchita (Europa), ma deve accettare, pur senza rimanere con le mani in mano (3), tempi e circostanze che le sono avverse, nella lucida consapevolezza che il Signore è con lei. Deve dunque saper accettare quello che il pensiero laico chiama “alterna onnipotenza delle umane sorti” (Foscolo).

1 Dal latino ovis = pecora.
2 Sesta sinfonia e sonata op. 38 per pianoforte solo.
3 A. ROSMINI, Massime di perfezione cristiana, Lezione IV, (= Prose ecclesiastiche. Ascetica. Volume I), Centro Internazionale di Studi Rosminiani-Città nuova, Roma 1976, pp. 45-46.