II domenica di Quaresima Lc 9,28b-36

 
 

– In cammino verso il Tabor –

a cura di Mons. Sergio Salvini –

Siamo partiti per un cammino di quaranta giorni improntato all’essenzialità.

Quaranta giorni per convertirci alla gioia pasquale, per lasciar crescere in noi la tenerezza del volto di Dio, per imparare o reimparare cosa ci sia davvero necessario. Digiuno, preghiera ed elemosina sono le tre strade che siamo invitati a percorrere: «un cammino lungo come la Quaresima». La simpatica, luminosa coscienza cristiana del passato in questa frase sintetizza bene l’atteggiamento di insofferenza verso un tempo liturgico che ci appare come imposizione di sacrifici e desueti fioretti per mortificare il corpo. Al contrario, la Quaresima autentica non mortifica: vivifica, sapendo bene che la vita interiore è lotta radicale contro l’aspetto tenebroso della nostra coscienza e che non basta rinunciare ai dolci per convertire il cuore.

La trasfigurazione di Gesù in Luca ci prepara e ci introduce al cammino di Gesù verso Gerusalemme, lungo il quale si compiranno i misteri della nostra salvezza. Il brano evangelico inizia con una precisazione di tempo: «Otto giorni dopo». La risposta viene dall’evangelista stesso che, più avanti, parla della risurrezione di Gesù: «Il primo giorno dopo il sabato, di buon mattino …». Essendo il sabato il settimo giorno della settimana ebraica, il giorno dopo, in successione di tempo e di numeri, è l’ «ottavo giorno», quasi a dirci che la vera identità di Gesù la si può trovare soltanto nell’ottavo giorno, quello della risurrezione. Soltanto lì Gesù apparirà e sarà compreso da tutti per quello che veramente è: «Figlio di Dio»; definizione precisata al termine del racconto.

Il Maestro chiede ad alcuni dei suoi di salire con Lui sul Tabor. Non è un Vangelo “mortificato” e penitenziale quello che ogni anno la liturgia ci propone, quasi a soffocare sul nascere la solita consuetudine cattolica di essere tristi, specialmente quando si parla di Dio. Sbagliato: quando si parte per il deserto il cuore è allegro, perché alla fine saremo liberati dal faraone e dal suo esercito. Quando si sale sulla montagna, malgrado la fatica, ciò che ci motiva è la gioia nello spaziare con lo sguardo oltre le vette. Abbiamo urgente bisogno di bellezza, della bellezza di Dio che è verità, bene e bontà.

Non è forse questa la fragilità della nostra fede contemporanea? Non è forse questa la ragione di tanta tiepidezza della nostra comunità? Non abbiamo forse smarrito la bellezza nel raccontare la fede? Nel celebrare il Risorto?

È noioso credere. È giusto – certo – ma immensamente noioso. Il Vangelo di oggi ci attesta, invece, che credere può essere splendido. Varrebbe la pena di recuperare il senso dello stupore e della bellezza, l’ascolto dell’interiorità che ci porta in alto, sul monte, a fissare lo sguardo su Cristo. Allora il Tabor diventa la meta della nostra Quaresima.

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«La gioia del vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia» (Evangelii Gaudium 1)

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«L’intera esistenza di Gesù è stata una liturgia ospitale, e anche le nostre liturgie sono chiamate a esserlo oggi più che mai… Liturgie ospitali che sanno andare incontro alle persone fino a portare la fatica di chi fatica a vivere e a credere; che siano consolazione per chi è provato e ferito dalla vita, che siano capaci di dare ragioni per sperare» (Convegno di Firenze, «trasfigurare»).