Domenica in albis

 
 

A cura della Fraternità della Trasfigurazione

Poco sappiamo del corpo di Gesù risorto; si tratta senz’altro di un corpo simile al nostro, di qualcuno che mangia in compagnia degli amici, ma anche del tutto diverso: esso, infatti, non è sottoposto ai limiti e all’opacità della materia, appare e scompare, entra nelle stanze a porte chiuse. Come mai, allora, il Signore glorioso ha voluto manifestarsi con i segni e le ferite che evocano una morte ignominiosa? Non ne aveva certamente bisogno per farsi riconoscere: Maria di Magdala, per esempio, l’aveva identificato semplicemente sentendo pronunciare il suo nome. Il motivo delle ferite è, dunque, più profondo e in funzione della crescita della nostra fede. Esse, infatti, ci invitano a contemplare il mistero della Pasqua nella sua interezza, senza eccedere nel dolorismo, come avviene in coloro per i quali le celebrazioni del Triduo sembrano concludersi il Venerdì Santo; nello stesso tempo, però, i segni della crocifissione costituiscono anche un implicito invito a non fuggire da una sofferenza che può far paura, come accadeva prima della morte di Gesù ai discepoli quando sembravano non sentire le sue parole allorché annunciava la sua futura passione. Siamo così invitati a contemplare il mistero pasquale in tutte le sue sfumature, guardando al corpo di Gesù che manifesta la sua gloria, ciò che dà fondamento e peso alla sua esistenza terrena: dalle ferite del Risorto traspare, infatti, la potenza di un amore più forte della morte. Perché questo possa accadere dobbiamo innanzitutto uscire dal nostro individualismo, dalla nostra visione personale della fede. La vicenda di Tommaso, di cui l’evangelista Giovanni mette in risalto come egli non si trovasse in compagnia dei discepoli nel momento in cui Gesù era apparso loro, ci ricorda l’importanza della testimonianza della comunità come via d’accesso al vero credere. Anche noi, come l’apostolo, vorremmo fare un’esperienza concreta, pragmatica del mistero di Dio: l’atto del toccare richiama, infatti, la forma più accessibile di contatto con la realtà; anche un cieco attraverso il tatto può rendersi conto dell’esistenza e della forma delle cose. In quel momento Tommaso dimostra di essere cieco spiritualmente e, forse proprio per questo motivo, a lui Gesù otto giorni dopo la Pasqua accorda la possibilità di mettere il dito nel segno dei chiodi e la mano nel suo fianco. Qualcosa di misterioso e di profondo avviene nel suo cuore: egli, grazie alla presenza e alle parole di Gesù, è immediatamente guarito dalla sua cecità spirituale e non ha più bisogno di toccare perché, come gli dirà il Risorto, “ha veduto”. Si tratta, tuttavia, di una visione che trascende la semplice esperienza dell’aver percepito con lo sguardo la Sua persona. Forse sono la presenza del Signore e il dono della pace che permettono a Tommaso di afferrare in un istante il mistero di Dio nella sua oggettività, riconoscendo nella persona di Gesù Colui che è Dio e Signore, ma anche nella sua dimensione intima e personale, che dà accesso a una relazione unica e insostituibile con Lui: quel “mio” rivela infatti la vicinanza, la profondità e lo spessore del legame. Intimità, profondità e vicinanza in cui anche noi possiamo essere introdotti attraverso l’atto del credere, grazie alla fede che ci permette di entrare in relazione con il Risorto potendo rivolgerci a lui con la stessa stupenda espressione di Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”.