Domenica di Risurrezione Lc 24,13-35

 
 

Fare Pasqua è fidarsi totalmente di Dio –

a cura di Don Luciano Condina –

Pasqua significa “passaggio” e con il triduo pasquale – momento liturgico più importante dell’anno – festeggiamo e ripercorriamo le tappe di questo passaggio dell’anima dalla schiavitù alla libertà, dalla conversione alla salvezza.
«Se non ti laverò, non avrai parte con me», dice Gesù a Pietro nell’ultima cena (Gv 13,8). Farsi toccare i piedi comporta un certo imbarazzo e l’atto di lavarli simboleggia la necessità di farsi lavare quella parte intima, inaccessibile, oscura. È vivere l’esperienza del perdono più profondo, del sentirsi amati da Dio molto più di quanto si pensi di meritare; ed è la percezione di questo amore che genera gratitudine e zelo nel vivere il cristianesimo. È l’esperienza interiore del perdono che ci permette di passare dalla legge alla Grazia.

Per fare un santo ci vuole un peccatore perdonato.

Dopo di che possiamo nutrirci del pane di vita eterna lasciatoci in eredità da Gesù, che prima lava i piedi agli apostoli, poi istituisce l’eucarestia e il sacerdozio. Nel suo primo giorno di vita il Signore fu posto in una mangiatoia, per indicare fin da subito che sarebbe stato “cibo”. Come Gesù è “nuovo Adamo”, così in quel cibo nuovo offre la salvezza in opposizione al primo peccato, legato a un cibo vietato. Da sempre i padri spirituali insegnano che il principio di tutte le passioni è la gola, cioè la brama che ci domina. Nel deserto la manna durava solo un giorno, per spiegare che l’uomo deve imparare a mangiare il pane di oggi, a vivere legato a Dio senza staccarsi da Lui e ad aspettare da Lui la vita. La manna di allora è il pane eucaristico di oggi. Mangiare questo pane ci permette di diventare noi stessi pane, a imitazione di Cristo.

Il venerdì, sulla croce «tutto è compiuto» (Gv 19,30). Per salvare il mondo Gesù non ha avuto bisogno di niente: nudo e inchiodato, ha donato tutto, persino anche sua madre, la persona più preziosa per Lui sulla terra. Un dono incommensurabile per noi: niente al mondo vale l’amore di una mamma.

Il venerdì è il giorno in cui “adoriamo la croce”: non il crocifisso ma proprio il patibolo (non baciamo il piede di Gesù, bensì il legno); ed è uno dei momenti più paradossali della liturgia pasquale: la sapienza di Dio passa per una cosa assurda che è la croce. La salvezza passa da cose che ci fanno male, perché la croce tira fuori la nostra verità e nella difficoltà ci rivela chi siamo. Quanto vale una persona? Lo si scopre solo quando vive un momento difficile. L’oro si estrae dal crogiuolo e la nostra verità può svelarla solo la croce. Chi inizia a baciarne una, acquisisce la sapienza di credere che la Provvidenza non sia estranea all’essere umano neppure quando viviamo la sofferenza.

Il sabato è giorno di silenzio, di riposo. Per risorgere bisogna prima morire, per arrivare alla terra promessa bisogna percorrere il deserto, attraversare il nulla. Non esiste cambiamento senza morte, senza fine, senza azzeramento. L’inattività di vita è quasi insostenibile, perché significa accettare la propria impotenza, i propri limiti. Lo shabbat, il sabato, il riposo dalle opere quotidiane è imparare a mettersi nelle mani di Dio, attendere che Egli ci faccia risorgere, scartando le nostre soluzioni.

Nella veglia pasquale le quattro parti della liturgia ci fanno rivivere la nascita a nuova vita e la resurrezione. La luce simboleggia la fede; le candele accese al cero pasquale ci ricordano che essa è un dono: finché il Signore Gesù non illumina la nostra vita, andremo sempre a sbatterle contro.

Nelle diverse letture si celebra la storia della salvezza, la Parola di Dio entrata nella nostra vita; una parola creatrice ogni volta che parla.

Con la liturgia battesimale ricordiamo che Dio ci accompagna per mano nella morte e da essa ci tira fuori: il battesimo è un’iniziazione. Infine, con l’eucarestia, ci uniamo in una nuova alleanza con Cristo, di cui siamo corpo nella Chiesa.

Fare Pasqua è uscire dai propri schemi e percorrere le vie del Signore, che sono infinite.