Celebriamo … il coronavirus (!?)

 
 

a cura di Mons. Alberto Albertazzi

alberipazzi@gmail.com

Non si sa se questo titolo sia più irritante o insolente! Celebrare significa salutare con gioia ed entusiasmo. Come si può saltare di gioia ed essere entusiasti di un emergenza che falcia vite umane e rinserra tutti in casa? E’ ovvio che non intendo celebrare il coronavirus in sé, ma alcuni aspetti del suo indotto.

Cosa intendo per indotto del coronavirus? Intendo le condizioni ambientali che si sono prodotte, fatte di vuoto e di silenzio. Sono queste le componenti che, a parer mio, occorre valorizzare. Lo scrive uno che ha la fortuna di vivere in località sostanzialmente tranquille e a popolazione rarefatta. Figuriamoci lo stordimento che tali condizioni possono produrre nelle grandi città. Stiamo vivendo queste giornate in un “Caprile allargato”. Mi spiego.

Quando vado a Caprile – circa 180 abitanti aggregati in frazioni dislocate – la domenica mattina per la Messa delle 9.30 respiro tonificanti boccate di solitudine: io, la chiesa, il municipio, il cimitero, gli asini e le capre. In chiesa non c’è ancora nessuno, il municipio è chiuso, gli abitanti del cimitero sono notoriamente taciturni. Restano gli asini e le capre: i primi, silenziosamente mogi, fanno persino tenerezza; le seconde brucano tranquillamente, mi guardano un po’ incuriosite e si scambiano ogni tanto affettuose cornate. Altro che i sovrumani silenzi e la profondissima quiete di Leopardi! E queste stupefacenti condizioni ambientali a Caprile non sono prodotte dal serpeggiante coronavirus, ma sono abituali. Discorso sostanzialmente analogo si potrebbe fare per Ailoche.

Il coronavirus ha per lo meno il merito di “caprilizzare”, se sono riuscito a spiegarmi, l’ambiente urbano. Certo: in sé è da combattere in tutti i modi e lo si sta facendo con una solidarietà nazionale che merita plauso e gratitudine; ma le situazioni ambientali che tangenzialmente produce meritano di essere intensamente vissute.

Posso capire gli ostentati entusiasmi urbani, con batteria da cucina invece che da orchestrina, come accompagnamento gastro-musicale a canti che si elevano dai balconi dei condomini: intendono significare la garantita sconfitta del coronavirus. Ma li trovo stonati. Il “silenzio corale”, avendone ormai persa la percezione e il fascino, lo trovo più eloquente e raffinato di ogni esternazione fracassona, che non fa altro che riciclare sotto altra forma il vissuto urbano, ove c’è tutto fuorché la tranquillità esistenziale: il tempo infatti diventa fretta e l’azione, catena di montaggio.

Sto scrivendo attorno alla 9.00 di domenica 15 marzo. Ordinariamente a quest’ora mi trovo o a Caprile o alla Guardella. Oggi invece sono a casa. In prospettiva c’è dunque una domenica, e forse anche altre, non di corsa ma straordinariamente tranquilla. La Messa l’ho celebrate ieri sera ore 21.00 in rigoroso isolamento domestico. L’ho celebrata in latino, inserendomi nella tradizione orante della Chiesa Cattolica. E’ questo il motivo principale per cui anche la Liturgia delle Ore la recito in latino. Ma anche per una specie di economia culturale, che mi suggerisce di non dimenticare il latino. Sono stato, e continuo a essere, un convinto assertore dell’opportunità della liturgia in italiano, ma facciamo bene a valorizzare le rarissime occasioni che abbiamo per cavalcare ancora un po’ il latino liturgico. Chiusa parantesi.

Prevedo quindi di passare una giornata tranquilla, che mi farà immaginare la riposante inerzia della pensione, a noi parroci negata perché destinati a rimanere sulla breccia finché cervello e gambe ce lo consentono. I superattivi – alla cui specie non appartengo, e credo che tutti vene siate accorti – forse non mi capiscono; ma anche Gesù invitò i discepoli in un luogo a parte a riposare un po’ (cfr Vangelo di Marco 6,31).

Dio stesso, a creazione terminata, si è concesso un giorno di riposo (Genesi 2,2-3). E sì che nella sua settimana lavorativa si è limitato a pronunciare poche parole: quante ne bastavano per far schizzare le creature nel non essere all’essere (cfr Lettera ai Romani 4,17), quindi non doveva essere particolarmente stanco! Il riposo presuppone la stanchezza, che non possiamo immaginare in Dio. L’inoperosità invece può clonare dalla pigrizia, che mi piace definire scherzosamente il più calunniato dei setti vizi capitali. Più calunniato perché, se invece di pigrizia dico otium alla latina – onde il nostro ozio –, non ottengo “il padre di tutti i vizi”, ma la tranquillità che stimola la fatica intellettuale fatta di lettura e meditazione.

La Chiesa ha messo in sciopero la liturgia, certamente per giustificati motivi di prudenza e sicurezza, ma il provvedimento è doloroso. Ha raccomandato la preghiera, la Messa surrogata on-line, ma non esiste ancora la comunione digitale. Ho visto stamani in televisione la Messa celebrata in solitaria dalla cappella della Conferenza Episcopale Italiana: mi è parsa articamente surgelata e per nulla comunicativa. L’Eucaristia è nata attorno a un tavolo: rimane quindi un fatto troppo “di combriccola” per celebrarsela addosso.

L’Occidente istituzionale e mediatico, in coerenza con il suo esasperato laicismo, finora si è preso ben guardia di raccomandarsi a Dio. Il maniacale “politicamente corretto” non glielo consente. Sulla porta della moschea poco distante da casa mia si legge “In nome di Allah, il clemente, il misericordioso: in seguito al diffondersi del coronavirus …”. E segue la solita tiritera che ormai tutti sappiamo a memoria. Questo incipit teocratico lo trovo più rassicurante che il democratico “In nome del popolo italiano”!

Termino così queste variazioni sul tema Coronavirus e, se ho scritto delle scempiaggini, me ne scuso.

d. Alberto Albertazzi