Anno della fede

Dopo le divagazioni estive, che ci hanno deviato altrove, torniamo all’anno della fede, ormai quasi al traguardo. Ho voglia di fare una meditazione su un’eventualità esistenziale: la malattia. Nel quaderno dove si suggeriscono le intenzioni di preghiera, sito sul tavolo entrando nella chiesa di Crevacuore, ho trovato scritto «per la salute in famiglia». Si può pregare per questo, ma la malattia va tenuta sempre in conto anche quando si sprizza salute, perché può arrivare senza biglietto da visita. Non tutte le sorprese della vita sono belle. Mi sto riferendo a malattie un po’ più gravi dei duroni ai piedi: quelle serie, lunghe, dall’esito incerto, che fanno danzare da un esame clinico all’altro e limitano l’attività ordinaria.

Alla luce della fede la malattia, ancorché sgradevole, va considerata come un momento forte della vicenda umana, così potente da mutarne visioni e prospettive. Tutto ciò è nei patti: se si accettano le rose, si accettano anche le spine.

Una sorpresa del Vangelo è che  dà risalto soprattutto all’umanità debole, mentre certa letteratura antica privilegia l’umanità forte. Pensiamo ai poemi classici, Iliade, Odissea, Eneide:  i personaggi che agiscono – i vari Ulisse, Enea, Achille, Ettore, Aiace e altri innumerevoli – sono schianti di forza, vigore, salute, audacia. Nei Vangeli invece troviamo l’opposta umanità, quella debole, malandata, fragile, persino non autosufficiente (cfr Mc 2,3; Gv 5,7). Mi riferisco ai moltissimi malati di vario genere  guariti da Gesù. Gli evangelisti stessi faticano a star dietro ai suoi molti miracoli sananti e allora ne danno una panoramica generale, trascurando il dettaglio narrativo (cfr Mc 1,32-34). In questa predilezione per l’umanità debole si rannicchia un pregio letterario di sconcertante originalità.

Sto dicendo, insomma, che nel Vangelo il malato conta, e se conta il malato conta anche la malattia: non certamente da ricercarsi ma da accettarsi, anzi da valorizzarsi. E siamo giunti a uno dei paradossi evangelici:  quello di riconoscere valore a ciò che è sgradito. E’ la logica evangelica della croce: spiacevolissima in sé, ma pregevolissima negli effetti. La croce stessa ci induce a riconoscere nella malattia uno spessore religioso da non sciuparsi, pur facendo ogni sforzo per  superarla. Fin quando però resiste, la fede raccomanda di non sprecarla ma di associarla intenzionalmente alla croce di Cristo: in tal modo viene finalizzata a scopi di redenzione. Per starmi dietro in questi passaggi è necessario farsi pilotare dalla fede che è bussola del Vangelo.

E’ sorprendente che la malattia sia “guarnita” di un apposito sacramento: l’Unzione degli infermi. Anche per l’unione fra uomo e donna c’è un sacramento, quello del matrimonio. E c’è pure per il ministero, quello dell’ordine sacro. Matrimonio e ordine sacro fanno scattare un modo di essere nella Chiesa. Il fatto che esista un sacramento apposito per i malati in quanto tali, non induce a ritenere che pure la malattia nella Chiesa sia da ritenersi un modo di essere? Così da potersi dire che, se nella Chiesa taluni sono coniugi e talaltri sacerdoti, altri ancora sono “malati”. Le differenze restano notevoli: perché i coniugi sono tali per loro libera scelta; i sacerdoti sono tali per accettata vocazione; mentre i “malati” sono tali per condizione esistenziale, e mettono la loro malattia, pur combattendola con tutti i rimedi sanitari, a profitto religioso.

Il guaio è che il sacramento dell’Unzione è completamente sfuggito alla percezione religiosa dei cristiani che sembrano persino ignorarlo. Queste cose mi pare di averle già scritte, ma ci torno sopra. Notiamo che sinora ho parlato solo di malattia, non di morte: perché il sacramento in questione si chiama Unzione degli infermi, non estrema unzione, con quanto ha di terminale questa denominazione. E’ da richiedersi pertanto quando la diagnosi seria è pronunciata anche se la morte non è affatto imminente; non quando si è a un passo dalla bara e il cervello è già evaporato. Di fatto però non viene mai chiesto, è un sacramento in atrofia, come altri. Se la malattia è da valorizzarsi in senso cristiano, l’Unzione va richiesta al suo inizio, non al suo termine.

In questa prospettiva due signore mi hanno chiesto spontaneamente il sacramento dell’Unzione: non giovanissime e acciaccate entrambe, lo hanno ricevuto in chiesa, ove erano giunte con le loro gambe. Sono tuttora vive, semoventi e pensanti. Hanno capito che i loro acciacchi, peraltro non lievi, potevano essere religiosamente valorizzati, secondo il grande teorema di san Paolo: «Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24). In altre parole: “unisco intenzionalmente il mio patire alla passione di Cristo per dare manforte alla Chiesa”.  Come ciò avvenga non si sa, perché Dio ha diritto di conservarsi dei segreti, però avviene. E’ certo comunque che questo programma paolino si ufficializza sul cristiano malato col sacramento dell’Unzione. Ciò che lascia interdetti è che Paolo arriva a dire «sono lieto nelle mie sofferenze»! Siamo oltre il pensabile, ma nella logica del Vangelo non c’è nulla di banale e di scontato. Se il Vangelo fosse tutto prevedibile, perderebbe il suo carico spiazzante di sorpresa.

Proprio perché Paolo riesce a travasare la sofferenza in letizia, nel rito dell’Unzione non c’è nulla di lugubre e piagnucolante.  Il rito dell’Unzione opta sempre per la guarigione, come si legge in questa preghiera che ne fa parte:

O Gesù, nostro Redentore,

con la grazia dello Spirito Santo,

conforta questo nostro fratello,

guarisci le sue infermità,

perdona i suoi peccati,

allontana da lui le sofferenze

dell’anima e del corpo,

e fa’ che ritorni al consueto lavoro

in piena serenità e salute.

L’anno della fede ci ha dunque dato occasione di esplorare alla sua luce la malattia, che è il più antipatico passaggio dell’esistenza umana.  Su questo credo che siamo tutti d’accordo, diversamente non diremmo per consolarci, quando siamo in guai d’altro tipo, «basta che ci sia la salute».

La vecchiaia in quanto tale è titolo per ricevere il sacramento dell’Unzione?  Se pensiamo alla romana, sì. I romani infatti dicevano: Senectus ipsa morbus (= la stessa vecchiaia è malattia). Personalmente sarei più cauto: dipende da come si invecchia. Se si invecchia vigorosi come un Caronte dantesco (Inf III, 82-111), direi proprio che la vecchiaia non sia da considerarsi malattia. Se invece si invecchia “tremuli e disfatti” – come dice Gozzano – allora ci sono gli estremi per il sacramento.  Il rituale è chiaro: «Ai vecchi, per accentuato indebolimento delle loro forze, si può dare la sacra Unzione, anche se non risultano affetti da alcuna grave malattia».

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Esistono vari tipi di olio: dalla morchia per macchine agricole, utile ma non raffinatissima,  ai più sofisticati cosmetici. Quest’ultimo è un uso frivolo dell’olio, ma legittimato dalla Bibbia in Salmo 104,15, che ringrazia Dio per l’olio che fa brillare il volto umano. E Giuditta, dovendo partire per un’audace impresa militare (o equiparata) la cui arma vincente era la seduzione, «si lavò il corpo con acqua e lo unse con profumo denso» (Gdt 10,3). L’olio sottinteso in questa chiacchierata è olio naturale, spremuto da olive, benedetto dal vescovo il giovedì santo. Nella Bibbia l’olio, insieme con l’acqua, è uno degli elementi protagonisti: sempre chimicamente uguale a se stesso, differisce per gli usi non privi di significati sananti (cfr Mc 6,13; Lc 10,34). Per questo Giacomo, “promulgando”- come dice il Concilio di Trento –  nella sua lettera (5,14) il sacramento dell’Unzione, scrive: «Chi è malato chiami presso di sé i presbiteri della Chiesa ed essi preghino su di lui, ungendolo con olio nel nome del Signore».