Un Ripasso e Buon 2015 a tutti!

 
 

Certe preghiere sono un po’ soggette al capriccio delle mode. Rimangono in auge per qualche tempo, poi vanno a finire nel dimenticatoio. Ciò non capita naturalmente a preghiere supreme, come il Padrenostro, l’Avemaria e soprattutto i salmi, dai quali la Chiesa non potrà mai congedarsi, a motivo della loro bellezza divina e umana mescolate insieme. Se vogliamo infatti metterci dinanzi a Dio non c’è di meglio che immedesimarci col salmista di turno, appropriandoci dei suoi sentimenti, dei suoi stati d’animo così variegati e, naturalmente, delle sue parole.

Altre preghiere invece sono un po’ altalenanti nell’uso che ne fanno i cristiani. Fra queste ho voglia di ripescare i quattro atti, ossia di fede, di speranza, di carità e di dolore. Mi sono tornati in mente perché si recitano prima della Messa alla Casa di cura Santa Rita a Villa del Bosco, ove mi reco due volte la settimana. Per vero dire l’atto di dolore è rimasto in repertorio, perché richiesto solitamente dal confessore al penitente dopo che ha vuotato il sacco. Direi che sia un dolore per soli adulti, maschi e femmine, che possono avere effettivamente di cui pentirsi e dolersi con tutto il cuore. Acuti doloristici così marcati mi pare che si addicano poco ai bambini di prima comunione, il cui repertorio di malefatte va poco oltre «ho tirato la coda al gatto». Ma ahimè, la soglia biografica della malizia si sta abbassando sempre di più. Mettiamo in coda l’atto di dolore che non ha bisogno di essere rinfrescato e ripassiamo gli altri tre, che si coniugano con le tre virtù teologali: fede, speranza e carità. Se sono virtù bisogna farle funzionare consapevolmente, se no si svalutano a livello di istinti più o meno teologali. Eccoallora l’opportunità del relativo atto, utile per fare il punto sulla situazione: come va la mia fede? Cosa veramente spero? Come me la cavo con la carità. E’ chiaro che esami di questo genere fanno poi confluire il tutto nell’atto di dolore, lacrimoso calderone in cui sono raccolte le nostre insufficienze di fede, speranza e carità, insieme con altre nostre malefatte.

 

L’atto di fede pesta un po’ i piedi al Credo, onde occorre distinguerlo, ragionando per prevalenze. Nel Credo prevale l’oggettività della fede. E’ infatti la lista degli articoli fondamentali della dottrina cristiana. È la fede creduta (fides quae creditur). Il soggetto recitante, pur impegnandosi in prima persona – dice «Credo», per l’appunto – rimane un po’ in retrofila. Nell’atto di fede in prima posizione si trova il soggetto che lo pronuncia, il quale dichiara di credere tutto quello che Dio ha rivelato e la Santa Chiesa propone a credere. Cogliamo anche qualche rifinitura concettuale al Credo, nel quale le tre persone divine sono menzionate un po’ in ordine sparso. L’atto di fede le accomuna nella formula «Credo in te, unico vero Dio in tre persone uguali e distinte, Padre, Figlio e Spirito Santo». Si nota lo sforzo quindi di illustrare come sia congegnato Dio al proprio interno e non soltanto le grane che si è preso per noi. Si crede pure che Gesù Cristo, Figlio di Dio, incarnato, morto e risorto per noi, darà a ciascuno, secondo i meriti, il premio o la pena eterna. Tenerlo presente ci fa molto bene. E tutto ciò è creduto “espressamente”, come si diceva – mi pare – nella primitiva formulazione. Si dà dunque risalto alla fede soggettiva, la fede con la quale si crede (fides qua creditur). E’ ovvio che con simili premesse non può mancare l’intenzione vitale «conforme a questa fede voglio sempre vivere», nonché la richiesta di suo aumento «Signore, accresci la mia fede» (cfr Lc 17,5-6).

 

Mio Dio, perché sei verità infallibile,

credo tutto quello che tu hai rivelato

e la Santa Chiesa ci propone a credere.

Credo in te, unico vero Dio

in tre persone uguali e distinte,

Padre e Figlio e Spirito Santo.

Credo in Gesù Cristo, Figlio di Dio

incarnato, morto e risorto per noi,

il quale darà a ciascuno, secondo i meriti,

il premio o la pena eterna.

Conforme a questa fede

voglio sempre vivere.

Signore, accresci la mia fede.

 

* * *

L’atto di speranza ci avverte che non è il caso di sprecarla per essere promossi o perché domani ci sia bel tempo. La speranza vera spara più in alto, sulla vita eterna che si spera di raggiungere con strumenti puntigliosamente elencati: le promesse di Dio, i meriti di Gesù Cristo e le buone opere che si devono fare. Alla fine una fiduciosa invocazione: «Signore, che io possa goderti in eterno». Una volta questa invocazione, più che fiduciosa, era accorata: «Signore, che io non resti confuso in eterno». Poi è stata voltata al positivo verso il godimento eterno di Dio, senza più tirare in ballo una confusione che rimane concettualmente confusa. Mi pare che vada bene: più che stare alla larga dall’inferno è conveniente sperare in quella che si chiama visione beatifica di Dio, ossia il paradiso

 

Mio Dio, spero dalla tua bontà,

per le tue promesse

e per i meriti di Gesù Cristo,

nostro salvatore,

la vita eterna e le grazie necessarie

per meritarla con le buone opere

che io debbo e voglio fare.

Signore, che io possa goderti in eterno.

 

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L’atto di carità ricicla i due fondamentali comandamenti (cfr Mt 22,37-40) nei quali sono spremuti e strizzati i dieci comandamenti tradizionali: amore verso Dio e verso il prossimo. Significativo il fatto che non viene indicato concretamente alcun atto di amore verso il prossimo, se non soltanto il perdono delle offese ricevute. E’ questo il mezzo più convincente per poter dire di amare veramente il prossimo. La carità non chiede eroismi, anche se non li disdegna, ma si contenta del ripristino della fratellanza dopo la perturbazione offensiva. Splendida saggezza!

 

Mio Dio, ti amo con tutto il cuore

sopra ogni cosa, perché sei bene infinito

e nostra eterna felicità;

e per amor tuo

amo il prossimo come me stesso

e perdono le offese ricevute.

Signore, che io ti ami sempre più.

 

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Ora qualcosetta sull’atto di dolore, che non riporto perché lo presumo saputo da molti. C’è quel «… e molto più perché ho offeso te, infinitamente buono …». Nulla da dire sul fatto che Dio sia infinitamente buono: se non le è Lui, non so chi lo possa essere. Deve essere precisata un momentino la dizione «ho offeso te». Può farci pensare a un Dio permaloso e irritabile, dal brutto carattere. Se fosse così, sarebbe anche poco simpatico, come sono poco simpatici quelli che tengo il muso per uno sgarbo ricevuto. Dio non deve essere pensato così. A Lui “tri-personalmente” il peccato non fa né caldo né freddo perché è impassibilità assoluta. Si tratta semplicemente di un comportamento umano attribuito a Dio, per acutizzare il senso di dolore che si prova quando ci riconosciamo peccatori. La Bibbia è piena di questi disinvolti procedimenti letterari che attribuiscono l’umano al divino. Lo dice anche Beatrice a Dante (Paradiso IV 43-45): «Per questo la Scrittura condiscende \ a vostra facultade, e piedi e mano \ attribuisce a Dio e altro intende».

 

I quattro atti si trovano in coda a tutti i vigenti catechismi. Se i genitori li dicessero con i loro figli, almeno in età di catechismo, darebbero una spinta positiva alla loro buona educazione, traendone anche vantaggio personale.