LA CRISI, IL VANGELO, I VESCOVI

 
 

– L’angolo di don Alberto –

Solo il Vangelo può avere la spregiudicatezza di proclamare beati i poveri. Se a modo umano di vedere c’è un’anti-beatitudine, è proprio la povertà. Eppure Gesù impavido dichiara «Beati voi, poveri» (Lc 6,20), e per giunta con la faccia tosta di dirlo chiaro e tondo proprio agli interessati, interpellandoli direttamente (voi).

Matteo cerca di edulcorare, e un po’ ci riesce. Enuncia una beatitudine connessa a povertà senza riferirsi a nessuno in particolare, connotando semplicemente la categoria. Inoltre stempera in “poveri in spirito” (5,3), lasciando al lettore l’incarico di identificarli. Chi sono? I ricchi, spiritualmente distaccati dalla ricchezza? Condizione più impossibile che impensabile? Gli spiriti semplici e schietti che non praticano ipocrisie e raggiri? Può darsi. Ma fermiamoci ai poveri pensati come li leggiamo in Luca (6,20), ossia gli indigenti, quelli che non sanno come legare il pranzo con la cena, che tremano quando arrivano le bollette di luce e gas; che devono comprare i libri scolastici per i figli ma devono anche pagare l’affitto dell’alloggio. E devono “accontentarsi” della promessa «vostro è il regno di Dio»! La povertà pronunciata nel Vangelo di Luca è di ampiezza illimitata, nelle forme, nel tempo e nello spazio. C’era ai tempi di Gesù e c’è anche oggi. C’era e c’è: sia su vasta e continua estensione geografica sia a pelle di leopardo.

Dalle nostre parti, dopo decenni di benessere in crescendo si è tornati a tirare la cinghia. Spiace ma è anche giusto. Perché poveracci e nababbi devono essere sempre gli stessi senza alternanze epocali? Anche le glaciazioni hanno avanzamenti e arretramenti, e così è giusto che accada pure per ricchezza e povertà.

Nel “beati voi poveri” mi pare di sentire un sottinteso. Questo: «Se accettate la povertà senza ringhiare», e fa caldo. Forse in questo sottinteso si rannicchia l’originalità audacissima del Vangelo in proposito. La povertà pugnata dai sindacati, pur essendo comprensibile il loro intento, non mi sembra in linea col Vangelo (probabilmente se ne fregano), perché è una povertà non accettata ma combattuta. Fanno bene a combatterla? Certo, è il loro mestiere. Fanno bene a dimenarsi per ottenere occupazione, equità di retribuzione e altre plausibili garanzie. Fanno bene pure i governi a cercare di promuovere il benessere e la tranquillità sociale. Fanno quello che possono incontrando tutte le difficoltà intrinseche ai sistemi parlamentari. Prenderanno anche delle cantonate e faranno degli sbagli, ma ciò è insito della natura umana.

Il Vangelo parla però un altro linguaggio e propone un’altra logica, che potremmo così sintetizzare: «Cari poveri, accontentatevi di come siete e di quello che avete». Ma dice anche «Va’, vendi tutto quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo» (Mt 19,21). Come dire «Se ti interessa il regno dei cieli, non devi fregartene dei poveri e devi cercare di farti povero anche tu». Ecco la radicalità evangelica, proposta a tutti ma accettata da pochi: i vari sant’Antonio e san Francesco.

Proprio per questa fuga verso il regno dei cieli, qualcuno ha definito la religione come “oppio dei popoli”, vale a dire come un fattore imbambolante col miraggio dell’eternità. Se si pensa quanto è rapida la vita («… ed è subito sera» dice Quasimodo), non vale la pena di prenderla troppo sul serio. Gli estremi ne sono emblematici. Si nasce nell’inconsapevolezza e si muore nell’inconsapevolezza. Si nasce all’ospedale e assai spesso si muore all’ospedale: la vita dunque origina e termina nella casa della malattia. Si può pensare qualcosa di più fragile? Si inizia a vivere nei pannolini (che tenerezza!) e si finisce di vivere fra i pannoloni (che tristezza!). E allora se così poco esaltanti sono l’inizio e la fine dell’uomo sotto il sole (cfr Qo 3,16), come si può sperare che sia migliore il tempo intermedio? Meglio puntare sull’eternità.
Mi accorgo di essere noioso e ripetitivo: infondo queste cose le ho già scritte e riscritte, ma la lingua batte dove il dente duole e ciascuno ha le proprie fisse. La mia visione un po’ lamentosa della vita discende dalla continua lettura di quel grande (almeno per me) maestro biblico di vita che è il Qoelet.

Il Vangelo (e il pensiero che ne discende) si spinge anche oltre: sino all’accettazione del sopruso per salvaguardare valori superiori. Piuttosto che litigare di brutto è meglio subire torti. E’ la logica della croce: quale maggiore sopruso che una ingiusta condanna a morte? Eppure Gesù l’ha accettata. Onde Paolo, riformulando esortazioni del Vangelo di Matteo (5,38-41), enuncia un principio che fa sobbalzare: «E’ già una sconfitta avere liti tra voi! Perché piuttosto non subire ingiustizie? Perché non lasciarvi piuttosto privare di ciò che vi appartiene?» (1 Cor 6,7). Quindi, se sto ragionando bene, mi pare che alla luce del Vangelo sia un po’ difficile legittimare dei diritti sociali.

Alquanto strana mi pare l’attuale crisi economica, della cui realtà peraltro non dubito. Strana perché vedo in giro pivelli senza neppure un millimetro di barba e con la faccia ancora da scuola materna o quasi, già con la sigaretta penzoloni fra le labbra. Ciò, salva la barba, vale pure per le pivelle. Dove prendono i soldi?

A un certo memento alla Chiesa è bruciato che la religione fosse l’oppio dei popoli ed è nata la “dottrina sociale della Chiesa”, di cui non parlo perché ne sono poco esperto.

Mi chiedo però che cosa avrebbe avuto di originale il Vangelo se Gesù, invece di dire «beati voi, poveri», avesse detto «bisogna creare occupazione»; oppure «l’articolo 18 non è un dogma»; oppure «non si tocchino le pensioni» e altri simili slogan episcopal-sindacali.
E adesso veniamo a noi. Non capisco perché i vescovi, se è vero che parlano in nome del Vangelo, si prendano tanto a cuore la crisi economica, assumendosi il ruolo di assistenti sociali nazionali. Spero che nel consiglio permanente della Cei si parli anche d’altro, ma i media riportano solo i pronunciamenti episcopali sulla presente congiuntura economica. Cito dall’Avvenire di oggi (2 ottobre): «Il cardinale arcivescovo di Perugia interviene sull’Osservatore Romano, chiedendo misure urgenti per affrontare la crisi. Bassetti: nuovo patto sociale per dare speranza ai giovani». Non dico che ciò non sia urgente, ma lo dicono già tutti i governi e tutti i partiti, seppure proponendo cure diverse. E’ proprio necessario che ci si mettano anche i vescovi? Il governo non dice ai vescovi come si deve fare il catechismo. Ciascuno stia nel suo ambito. Personalmente preferirei che la Cei desse delle dritte chiare e coraggiose – butto lì a casaccio – su come gestire la Cresima, che da sacramento dei soldati di Gesù Cristo è diventato il sacramento dell’addio alle armi, perché una volta ricevuta c’è il fuggifuggi generale.

Sulla congiuntura economica – di questo stavamo parlando – mi piacerebbe che la Cei si cimentasse con variazioni sul tema del “beati voi, poveri”, rimettendo in gioco la troppo taciuta eternità, senza naturalmente abdicare agli interventi caritativi già documentati negli scritti apostolici, assurti nella Caritas a benemerita istituzione; ma senza appiattirsi su scontati proclami da sindacato, quando avrebbe ben alto da dire! Se non si risveglia nell’uomo il senso dell’eternità (cfr Qo 3,11), il Vangelo è destinato a non riprendere quota.

Forse sono presuntuoso, perché ho creduto di insegnare ai vescovi a fare il loro mestiere. O forse sono un emerito brontolone, come è un po’ nella natura dei vecchi. Mah … Così la penso, nessuno è obbligato a leggermi.

Mons. Alberto Albertazzi