XXX domenica del Tempo ordinario

 
 

A cura della Fraternità della Trasfigurazione

Al dottore della Legge che gli domanda quale sia il più grande comandamento, Gesù risponde indicando l’amore di Dio, ma subito aggiunge che il secondo, quello relativo all’amore del prossimo, gli è simile (cf Mt 22,39). I due amori, di conseguenza, sono profondamente interconnessi e ciò risulta evidente nella parabola odierna. I personaggi rappresentati a mo’ di caricatura, come si evince dalle esagerazioni e dai tratti senza sfumature con cui sono descritti, mettono in risalto proprio questo aspetto: il modo in cui una persona si rivolge a Dio riflette la percezione che essa ha di sé stessa e degli altri. Da qualsiasi angolatura si inizi l’osservazione, si vedrà che le tre dimensioni sono fortemente intrecciate. Lo constatiamo in modo evidente analizzando l’atteggiamento del fariseo. La sua preghiera inizia con un rendimento di grazie in cui l’interlocutore al quale si indirizza sembra irrilevante. Manca del tutto il riconoscimento del suo esserci e del suo agire così come è assolutamente assente, proprio come avvenne per i nove lebbrosi guariti, ogni espressione di gratitudine nei suoi confronti. Il fariseo dà l’impressione che, pregando, egli assolva un dovere da aggiungere nella lista dei compiti svolti, insieme al digiuno e al pagamento delle decime. Dio non è quindi guardato come un’alterità con cui entrare in relazione, ma come un’entità indefinita a cui pagare il prezzo stabilito dalla Legge. Se il suo sguardo su Dio è impersonale, quello che egli posa sugli altri e su sé stesso è invece profondamente distorto. Gesù, da eccellente psicologo, descrive qui un modo di relazionarsi che gli attuali manuali di psicopatologia considerano tipico delle personalità narcisiste. Come abbiamo però evidenziato, ci troviamo di fronte a una caricatura i cui tratti peculiari sono resi in modo eccessivo, esagerato; questa considerazione impedisce così di attribuire unicamente al nostro personaggio quanto possiamo riscontrare presente anche dentro di noi, benché non in questa forma macroscopica. L’elemento più rilevante è dato dalla tendenza a svalutare gli altri e a ipervalorizzare se stessi. In questo caso la squalifica rasenta il disprezzo, a causa della categoricità senza sfumature con cui il fariseo accusa “gli altri uomini”, come se lui fosse l’unica persona fedele e onesta esistente in questo mondo. L’elenco dell’adempimento dei suoi doveri risulta quindi funzionale a rafforzare un’immagine di sé grandiosa e completamente asociale. La postura con cui i due personaggi si pongono davanti a Dio mette ulteriormente in risalto la loro diversità: il fariseo sta in piedi e, pur rivolgendosi a Dio, sembra intessere un dialogo solo con sé stesso; il pubblicano, invece, si ferma a distanza, proprio come avevano fatto i dieci lebbrosi coscienti della loro impurità. È questo il segno della sua consapevolezza del proprio peccato, che si esprime anche nel non osare alzare gli occhi al cielo. La confessione del suo stato di trasgressore della Legge gli permette non solo di fare verità dentro di sé ma anche di riconoscere l’alterità di Dio. Per tale motivo, a differenza del fariseo, egli tornerà a casa giustificato; non sono, infatti, i nostri meriti a renderci giusti, ma l’infinita misericordia di Dio, che si accontenta di vederci ammettere le nostre fragilità e i nostri limiti per offrirci la sua giustificazione.