….questo e quello….

 
 

Riflessione a cura di Mons. Alberto Albertazzi.

Sul n. 16/07/1020 di “Avvenire in prima pagina trionfa l’inquietudine del cardinale Bassetti, presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), per il pauroso crollo demografico che si sta profilando in Italia. Con questo andazzo “in 80 anni la popolazione italiana sarà dimezzata”. Va detto comunque che Bassetti, e altri esemplari della stessa specie a vari livelli gerarchici, non contribuiscono molto alla salvaguardia numerica del genere umano! Ma questa è soltanto una battuta e forse anche un po’ volgarotta, per introdurre quanto segue. Mi capita non raramente che mi si chieda perché preti e affini non si sposano; aggiungendo magari che, se si sposassero, le vocazioni sarebbero in risalita.  E’ una domanda di repertorio, alquanto ricorrente.

In genere si farfuglia una risposta funzionale: uno che fa il prete, o fa il prete o bada alla famiglia. Oppure, con l’attuale regime di retribuzione peraltro dignitoso, il prete non ce la farebbe a mantenere una famiglia. Ai più introdotti si può rispondere che nel Vangelo non si vieta il matrimonio ai preti, ma Gesù sembra dare un’enigmatica spintarella in favore del celibato (Mt 19,12; cfr 1 Cor 7,1). E via dicendo. Io personalmente da tempo mi sono attrezzato di questa risposta della quale sono fermamente convinto: dove Dio fa irruzione non c’è posto per altro. In genere chi la riceve toglie l’assedio. E forse la storia del celibato sacerdotale mi dà ragione. In origine non sono di certo mancati preti e vescovi sposati. Forse lo era anche san Paolo, come si può evincere da una sibillina domanda retorica che egli stesso pone a proprio riguardo (1 Cor 9,5). Ma col passare del tempo, in automatico e per opzione spontanea, si configura sempre di più il celibato sacerdotale, senza che venisse sancito da provvedimenti ecclesiastici, peraltro arrivati molto più tardi; probabilmente per stoppare “scappatelle” di certi don un po’ “don Giovanni”. Il celibato sacerdotale diventa norma ecclesiastica col Concilio Lateranense IV del 1215, essendovi state peraltro avvisaglie in tal senso nel 1075, sotto il pontificato di Gregorio VII. 

Ora, chiusa la storia del celibato ecclesiastico, rimaniamo ancora sul tema, ragionando della sua opportunità. Prete sposato vuol dire prete con famiglia, fatta di moglie (e magari anche suocera) e figli. Pare ovvio che tutto questo giro di relazioni, volente o nolente, diverrebbe per il prete interesse prioritario facendo retrocedere Dio nel suo scenario mentale. Pensiamo anche soltanto i problemi che procurano i figli ai nostri tempi. Pensiamo anche come è divenuto fragile il matrimonio: sarebbe così estremo immaginare un prete divorziato e magari con una femmina alternativa, secondo la moderna usanza dei matrimoni “fai e disfa”? Non so. Per il prete Dio deve rimanere l’interlocutore primario. Anche per un parroco Dio deve passare davanti ai suoi parrocchiani. Per il vescovo sarebbe molto più complicato trasferire da una parrocchia a un’altra un prete che deve tirarsi dietro la famiglia. Per un parroco tanto più è facile accettare un trasferimento, quanto più fa contare Dio nella sua vita: le parrocchie cambiano e con esse i parrocchiani, ma Dio resta sempre lo stesso. Quindi se Dio è al primo posto, per un prete tutto si semplifica e fluidifica, facendo scattare in lui un sapiente “indifferentismo pastorale”, per cui una parrocchia vale l’altra e fa le valigie per nuova destinazione senza rimpianto per ciò che lascia. Tutto ciò è possibile grazie alla “liberatoria” del celibato.

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Su internet, e forse non solo, si è scatenata una furibonda polemica contro la comunione da riceversi in mano. Sinceramente non la capisco, perché Gesù nell’atto istitutivo dell’Eucaristia dice inequivocabilmente “prendete e mangiate” e non “vi do e inghiottite”. Nell’anatomia umana gli attrezzi per la presa sono le mani, quindi non vedo perché irritarsi se bisogna obbedire alla lettera a una sensata ingiunzione di Gesù, circa faccende di sua competenza. Quando poi il covid 19 avrà tolto l’assedio, i “linguofili” (=sostenitori della lingua eucaristica) potranno tirare fuori la lingua per ricevere la comunione. Personalmente, se posso dire la mia, preferisco depositarla sulla mano: mi sembra una modalità più gentile ed educata. Vedersi davanti una lingua protesa non è uno spettacolo paradisiaco! 

Per quasi tutto il primo millennio la comunione si riceveva in mano: il fedele (se non era capitan Uncino) la copriva con l’altra mano, andava al suo posto e si autocomunicava. In epoca remotissima, quando la Messa era solo domenicale, i fedeli addirittura si portavano a casa l’Eucaristia per somministrarsela casalingamente. Unica raccomandazione: proteggerla dai topi! Le prime avvisaglie di comunione “linguale” le troviamo in san Bonaventura († 1274), il quale documenta, prendendone le distanze, la nascente usanza di raccattare con la lingua l’Eucaristia dal vassoio!

La dottrina della presenza reale di Cristo nell’Eucaristia in corpo, sangue anima e divinità, peraltro magistralmente messa a punto dai teologi del tredicesimo secolo, ne ha potenziata la dimensione del sacro, facendo scattare una diffusa sensazione di “indegnità manuale”, come se la lingua ne fosse più degna. Si è pure accanita la caccia al frammento eucaristico, assolutamente da non disperdersi: e questo va anche bene. Ma lo scrupolo è arrivato sino a proteggere la “molecola eucaristica”! Mentre l’Eucaristia rimane tale solo finché vi si ravvisa parvenza di pane. Il card. Schüster († 1954), arcivescovo di Milano, terminata la Messa stava ripulendo accuratamente i vasi sacri, quando il cerimoniere gli fa notare che sulla patena era rimasto un po’ di pulviscolo eucaristico. Il cardinale lo soffia via dicendo “panis angelorum” (=pane degli angeli). Risposta di arguto e dotto buon senso a uno scrupolo forsennato. La teologia tardo-medievale aveva coniato il brocardo sacramenta propter homines (= i sacramenti [si gestiscono] alla maniera umana), ossia con rispettoso e devoto buon senso, ma senza eccessi maniacali di stampo farisaico. I sacramenti sono infatti retaggio dell’umanità di Cristo, Figlio di Dio che si è fatto uomo. Una volta rimpatriato, lo intercettiamo nei sacramenti che producono effetti divini con meccanismi umani, e come tali devono essere gestiti, rispettati, venerati e celebrati. Il tutto secondo le migliori e più raffinate modalità umane. Il galateo vuole che gli alimenti giungano alla bocca per via manuale. 

In conclusione non condivido affatto il non raro ammutinamento eucaristico per non ricevere la comunione in mano. E’ nostalgia di un passato tardivo, molto più recente del passato primitivo.