Avvento

AVVENTO

In Avvento si sa Chi viene, quando è venuto, ma non si sa quando verrà: ecco la doppia dimensione dell’Avvento che, con una specie di strabismo liturgico, guarda in dietro e in avanti. Guarda indietro concentrandosi sulla venuta di Cristo «nell’umiltà della nostra natura umana»; e guarda in avanti sapendo che «verrà nello splendore della sua gloria». I passi fra virgolette sono tolti dal primo prefazio d’Avvento. Questo tempo liturgico comincia a battere i primi colpi in Gallia (così si chiamava una volta la Francia) nel VI secolo, come stagione conclusiva dell’anno liturgico, orientando il pensiero dei fedeli verso la seconda venuta di Cristo: la così detta parusia, parola greca che significa per l’appunto, venuta, presenza. Poi, col passare del tempo è passato in testa all’anno liturgico, assumendo come nota dominante il riferimento alla nascita di Cristo, sappiamo bene quando e dove. Le domeniche di Avvento si giostrano fra loro il duplice tema in questo modo: la prima fa suonare le trombe dell’apocalisse tenendo allerta i fedeli con trepida vigilanza, in quanto il ritorno di Cristo giudice è garantito ma ignoto ne è il momento. La quarta, già così sotto Natale, ha un po’ l’atmosfera della vigilia. Le due intermedie danno voce a Giovanni Battista – ma quest’anno la seconda è scavalcata dall’Immacolata – che, per essere stato il precursore del Cristo venturo, è più che mai personaggio tipico di questo tempo.

FEDE E CATASTROFI

L’anno della fede è terminato (24 novembre) in circostanze catastrofiche, che di fede ne richiedono molta. La fede infatti non si coniuga soltanto con i suoi contenuti dottrinali, ma si può anche frullare con terribili fatti di cronaca, sui quali può dire la sua. Penso allo sconquasso ciclopico delle Filippine e a quello meno tremendo, ma a noi più vicino, della Sardegna. Avevo già tentato giustificazioni di fede in passato riflettendo su fatti analoghi e non mi ripeto. Mi limito solo a osservare che l’uomo su questo pianeta è come le formiche in un formicaio: basta una scopata per disperderle. La stessa cosa capita a noi quando la natura mostra i muscoli. Spavaldamente ci illudiamo di avere domato il pianeta, ma dai tempi del diluvio universale continua ad assestarci terribili e cadenzati manrovesci.

IL PERDONO

Se Gesù fosse venuto a convalidarci, potava stare dov’era. E’ venuto invece a farci il contropelo con l’originalità del Vangelo, che va sovente oltre il pensabile. Grande originalità si trova nell’ardua disciplina del perdono cristiano, proposta al nostro cuore avvezzo a gridare vendetta. Il perdono che accordiamo è misura del perdono che ci attendiamo da Dio, secondo il teorema del Padrenostro: «rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,12). Paolo (Col 3,13) ribalta la prospettiva: «Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi». Il Vangelo punta sulla disciplina del perdono con una severa parabola, che impensierisce (Mt 18,23–35). Ci fa capire che col perdono non si scherza. Il perdono è la prova migliore di magnanimità, da intendersi etimologicamente nel senso di magnus animus (=animo grande). La proposta petrina del perdono da accordarsi sette volte, moltiplicato per settanta nella risposta di Gesù (Mt 18,21–22), non è ovviamente da prendersi in senso aritmetico. Il conteggio sarebbe anche difficile da tenere. Essendo tutto il dialogo giocato sul numero sette, simboleggiante la perfezione, contiene un invito al perdono costante e illimitato. Diverso dal perdono a denti stretti, nella gretta formula: perdono ma non dimentico.

SANTI PATRONI
Se lo Stato è laico, dovrebbero esserlo anche le sue istituzioni. Eppure ogni istituzione statale ha il suo patrono religioso, che solitamente è un santo o una santa. Ma talora si svolazza più in alto sino a mettersi sotto la protezione di un augusto pennuto, l’arcangelo Gabriele, che portò a chi di dovere messaggi altrettanto augusti, aventi “in oggetto” due grandi nascituri: Giovanni Battista e Gesù. Si capisce perché le poste statali se lo siano accaparrato come sidereo patrono. L’aspetto divertente è che il patrono non è mai interpellato circa la sua disponibilità al patronato. Polizia, carabinieri, vigili del fuoco, alpini, poste, marinai e altri ancora hanno santi patroni. Non so se la magistratura abbia un suo patrono. Se già non lo avesse, e Berlusconi diventasse santo – con i tempi che corrono non si sa mai –, sarebbe meglio per lei che non se lo prendesse come patrono!

CONGEDO

Sta bene la gentilezza nell’accoglienza, ma sta bene anche nel congedo, per il quale esistono varie formule, liturgiche e non. La formula tradizionale è La Messa è finita: andate in pace. Su questa formula si è molto discettato se si dovesse dire “andate in pace” o “andiamo in pace”. Disquisizioni molto “pretesche” (=da preti). Ciò che importa è che si vada. Il Messale propone variazioni più o meno sofisticate e anche un po’ leziose. Eccole. La gioia del Signore sia la vostra forza. Andate in pace, di nobile ascendenza biblica, ricorrente nel libro di Neemia (8,10) alla conclusione di una magna assemblea liturgica. C’è poi ancora Glorificate il Signore con la vostra vita. Andate in pace, di sapore lievemente paolino (cfr 1 Cor 6,20). Quindi lo scontato Nel nome del Signore andate in pace, e da ultimo il giocondo Portate a tutti la gioia del Signore. Andate in pace. In pace si va sempre, muta solo la premessa. Tra i vari preferisco quello tradizionale. Non è il caso di arabescare troppo un invito che è solo funzionale. Quando i cardinali si auto-tumulano in conclave il cerimoniere intima quasi con tono di minaccia il famigerato extra omnes, perentorio e non particolarmente cortese. In ogni caso più raffinato del robusto fo’ di ball (chiedo di essere sollevato dall’onere della traduzione, di per sé evidente), formulato dal poeta dialettale milanese Carlo Porta, congedando certo fra’ Deodat.

«IL VECCHIEREL CANUTO E BIANCO»
Se il Petrarca in questo sonetto (Canzoniere XVI) avesse aggiunto anche pelato, mi sarei riconosciuto perfettamente. Una volta la vecchiaia era venerata per autorevolezza ed esperienza di vita. Oggi invece trionfa il giovanilismo. Chissà se vale di più la vecchiaia o la giovinezza. A occhio sembrerebbe la giovinezza, perché spalancata sul futuro. Se poi invece che di vecchiaia, ove può rannicchiarsi ancora un pizzico di vigore, parliamo di anzianità, spostiamo di poco le cose ma vengono in mente le case di riposo con i loro ospiti accartocciati e sonnolenti, trattati e serviti come bambini, ma con una bella differenza: i bambini fanno tenerezza, i vecchi fanno pietà. La vita è siffatta: è uno scorrere veloce e progressivo dalla culla alla sedia a rotelle, salvi imprevisti. In mezzo ci sta il tempo rapido e incalzante e il cervello che lentamente si spappola mandando la memoria in frantumi, al punto da non ricordare più se si sono spente o no le luci in chiesa. Tutto ciò è benefico, perché quello che umilia l’uomo fa un gran bene all’uomo.

IL “BRONTOLUOMO”

L’uomo è solito prendersela con l’uomo. Quando capitano calamità si va in cerca dei colpevoli e si sentono le solite tiritere: tragedia annunciata, allarme non dato tempestivamente, soccorsi giunti in ritardo, protezioni e difese non fatte o fatte a metà; proclami tipo «chiediamo solo giustizia», come se fosse facile farla. Anche i vescovi si impancano a ingegneri e denunciano cementificazioni selvagge. E via brontolando. Partono interminabili inchieste, perché un colpevole di deve essere per forza: anche se il pianeta si mettesse a girare al contrario. Una volta c’erano i brontosauri, adesso c’è il “brontoluomo”.