Anno della fede

L’anno della fede lo apre un papa e lo chiude un altro, arrivato «dalla fine del mondo». Ciascuno sul nuovo arrivato ha già detto la sua. Si sentenzia precocemente come sarà il pontificato di Papa Francesco, ma per ora non abbiamo elementi. Si è lavorato di fantasia sulle poche parole da lui dette quando si è affacciato alla loggia della basilica vaticana. Lasciamogli il tempo di imparare il “mestiere”. Nessuno glielo può insegnare, se non chi c’era prima di lui. Ma poi ogni Papa esercita il ministero petrino secondo il suo stile e la sua personalità.

Il ministero petrino. È il caso che lo esploriamo, visitando i passi del Vangelo che ne pongono le basi.
A. Parto dalla fine del sermone eucaristico tenuto da Gesù nella sinagoga di Cafarnao (Gv 6,26-58.59), con vari interventi di folla. E’ quel discorso a base di «mio corpo è vero cibo e il mio sangue vera bevanda» (v. 55). Dopo dichiarazioni così madornali la folla lo pianta e restano lì solo i dodici, inluchìi come tappon (= sbalorditi come tonti) – avrebbe detto il Porta. Probabilmente non avevano capito più degli altri. Gesù li sfida ad andarsene anche loro. A questo punto Pietro sbotta: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (vv. 68- 69). Un punto a favore delle fede di Pietro. Di una cosa era certo: Gesù non è un cacciaballe (come direbbe Dario Fo). Allora resta, e con lui gli altri. Il capire è secondario rispetto al fidarsi.

B. Passiamo ora al dialogo di Cesarea di Filippo, a colpi di «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo? / Ma voi, chi dite che io sia?» (Mt 16,13.15). Pietro senza esitare risponde: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Di0

vivente» (v. 16). Gesù gli cambia nome: da Simone lo trasforma il Pietro inventandogli un nome personalizzato, significativo del suo ruolo di fondamento della Chiesa. Anche se i papi hanno preso l’usanza di cambiare il nome anagrafico nel sesto secolo, Gesù ha suggerito il vezzo già con Pietro. Tira poi fuori di tasca le chiavi del regno dei cieli e le passa a Pietro. Il “Santo di Dio” riconosciuto a Cafarnao, si individua a Cesarea come il “Figlio del Dio vivente”. E’ una tessera del mosaico trinitario che va al suo posto.

C. Gesù aveva qualche giustificata apprensione sulla fede petrina: appena ricevute le chiavi, Pietro infatti cerca maldestramente di distogliere Gesù dalla sua prospettiva di morte (Mt 16,22). Non aveva capito bene cosa comportava il fatto che Gesù fosse il Cristo. La reazione di Gesù è immediata e inviperita: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!». Come fa presto un papa a diventare un satanasso! Gesù ha dunque rinnegato (o degradato) Pietro ben prima che capitasse il contrario!

D. Arriviamo all’ultima cena, condita in Luca con fede petrina. Dopo istituita l’Eucaristia, Gesù dichiara: «Simone, Simone, ecco: Satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano, ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli» (Lc 22,31- 32). La fede di Pietro è rinforzata dalla preghiera di Gesù. Tuttavia la conversione irreversibile è ancora per strada: è infatti imminente la brutta storia del triplice rinnegamento. Si tratta di una battuta di arresto tipica del cuore umano, insondabile e imprevedibile (cfr Sal 64,7), sempre pendolare fra fedeltà e tradimento. Ma la conversione di Pietro è garantita, se a lui, già clavigero del regno dei cieli, è affidato l’onere di “confermare” i suoi fratelli: è solo questione di tempo. Pietro non è soltanto custode della sua fede personale, ma anche

di quella altrui. E la responsabilità di Pietro diventa enorme.

E. A resurrezione avvenuta abbiamo un altro dialogo fra Gesù e Pietro. Un dialogo che allarma un po’ l’antico pescatore, che si era messo a pescare per l’ultima volta (Gv 21,1- 14). Lo allarma per l’insistenza della domanda: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?» (Gv 21,15). Pur avendo Pietro risposto affermativamente, la domanda è ripetuta altre due volte. Pietro è interpellato col nome anagrafico (e non col nome d’arte) ed è individuato anche per paternità. La domanda è solenne, sembra persino avere uno spessore burocratico, un po’ come se Pietro fosse indagato. L’amore di Pietro per Gesù deve essere vincente (“più di costoro”). Quando Gesù si ritiene certo della lealtà di Pietro, questi chiude definitivamente coi pesci e passa alle pecore: «Pasci le mie pecore» (Gv 21,17).

Da quanto visto, si deduce che il ministero petrino è quello di tutelare e promuovere la fede propria e altrui, soprattutto in un’epoca come la nostra, nella quale la fede è in flessione catastrofica. Per fede intendo le verità di fede, che scioriniamo nel credo domenicale: sembra raccolgano scarsa adesione persino dal popolo della domenica.

Oggi è di moda andare a caccia di “aperture” e, specie quando un nuovo personaggio si insedia in un ruolo che conta, si resta in attesa di eventuali “aperture” al moderno. Se poi il personaggio è il Papa, le aspettative di apertura lievitano. Apertura è rendere praticabile ciò che prima non lo era. Nel concetto di apertura è intrinseca l’idea di ampiezza e modernità di vedute. Qui sotto c’è il solito marchiano sofisma, che identifica senza analisi preliminare il moderno col giusto. Ho detto “senza analisi preliminare”. Se per moderno intendiamo l’informatica, la Chiesa ha già dato prova di saper aprire. Se intendiamo invece aborto e divorzio, il papa Francesco non sarà disposto ad “aprire”, come non lo sarà nessun altro papa. Sui valori non negoziabili non si chiude se sono aperti e non si apre se sono chiusi. Ciò ancor più vale per le nozze gay. La non apertura agli omo-coniugi, ancor prima che dalla Chiesa, è sancita dalla natura e dal buon senso che parlano lo stesso linguaggio, intendendosi perfettamente.

Questi sono di certo dei problemi, ma in fin dei conti abbastanza marginali rispetto al ministero petrino. Al papa, chiunque esso sia, compete innanzi tutto di fare in modo che: 1. il riferimento a Dio non sia cancellato dalla società baldanzosamente autodefinita post-moderna; 2. la vera modernità sia intesa in linea col Vangelo e non contro il Vangelo; 3. l’uomo di oggi non sia così imbambolato da dimenticare l’eternità e il giudizio di Dio, l’unico non aggirabile.

La fede, di cui il papa è supremo custode, gira attorno a questi capitoli. Da un papa ci si aspetta preventivamente che sia in grado di affermarli con vigore e chiarezza. Secondo l’inequivocabile mandato di Nostro Signore, l’unica apertura/chiusura che gli compete è quella del regno dei cieli.

Ho parlato del Papa, attorno al quale gira un’atmosfera di straordinarietà, inaugurata col nome che s’è dato. E’ venuta una mamma a farmi vedere la sua bambina nata da poco: graziosissima. Negli occhi aveva ben più di un’innocenza intatta; aveva l’inconsapevolezza, così cara a Gozzano. Per giunta non si chiama né Nicole né Carol, ma si chiama Maria, “nome dolcissimo, nome d’amore”. E’ straordinario come ciò che la natura fa ordinariamente sia più straordinario di un Papa che si chiama Francesco.

“SURCELEBRARE”

I verbi celebrare e gelare, quando se la vedono con i prefissi, non hanno gli stessi esiti. Il prefisso “con-“ produce infatti concelebrare e congelare. Il prefisso “sur-“ invece produce surgelare ma non surcelebrare. Peccato. Certe concelebrazioni sono così frigide e inamidate, specie per mancata comunicativa del presidente, che potrebbero dirsi “surcelebrate”. Non così è stata la bellissima Missa chrismatis di quest’anno a Vercelli.