XXVIII domenica del Tempo ordinario
A cura della Fraternità della Trasfigurazione
Anche questa domenica ascoltiamo la narrazione di un episodio avvenuto durante il viaggio verso Gerusalemme. La scena si può dividere in due parti. Nella prima, Gesù, entrando in un villaggio, incontra dieci lebbrosi che lo supplicano di essere guariti. Gli sguardi che si incrociano sono carichi di attese, desideri e speranze. I lebbrosi, come prescritto dalla Legge, si tengono a distanza; lo chiamano per nome, dimostrando di riconoscerlo, e con l’appellativo “Maestro” gli manifestano rispetto. La risposta di Gesù, che li invita a presentarsi ai sacerdoti, è sobria e anch’essa osservante della Legge. Il miracolo che avviene lungo il cammino rivela la profondità dello sguardo che egli ha posato su di essi. La loro guarigione è segno della bontà misericordiosa e compassionevole che il Figlio di Dio nutre per ogni uomo, di quell’amore che, già nel seno della Trinità, lo ha spinto a incarnarsi e a donare la sua vita per noi. Nella seconda parte del racconto avviene un cambiamento significativo: dei dieci lebbrosi guariti, solo uno torna indietro per ringraziare. Il suo gesto rivela non solo il suo vissuto personale, ma, indirettamente, anche l’atteggiamento degli altri. Come spiegare, infatti, la loro mancanza di gratitudine, l’assenza di quello che dovrebbe essere un bisogno naturale del cuore umano? Un altro passo del Vangelo di Luca aiuta a comprendere il sentire dei nove che non tornano a ringraziare. Al capitolo 4, l’evangelista narra dell’accoglienza iniziale riservata a Gesù dai suoi compaesani e del successivo rifiuto, motivato dall’assenza di miracoli da lui compiuti. L’atteggiamento dei nazaretani ha la stessa radice della mancata gratitudine dei nove lebbrosi: in entrambi i casi, il miracolo viene percepito come un diritto acquisito, derivante da un’appartenenza che quasi obbliga Dio a intervenire in loro favore. Emergono così uno sguardo rivendicativo, un porsi sullo stesso piano di Dio, proprio come accade nella parabola del fariseo (Lc 18,9-14), e un pretendere da Lui la soluzione ai propri problemi. Manca, invece, la consapevolezza di due dimensioni fondamentali dell’esistenza: il riconoscimento della propria fragilità e del conseguente bisogno dell’altro, e la consapevolezza che Dio compie miracoli solo perché ha a cuore la nostra vita. L’unico che torna è un samaritano; la sua appartenenza a un popolo che non gode di alcun privilegio ma è invece disprezzato, anche se non da Gesù, gli permette di guardare a sé stesso in modo libero. La gratitudine che egli dimostra nei confronti del Signore nasce, infatti, da una consapevolezza oggettiva della propria condizione: solo chi conosce i suoi limiti, infatti, può essere davvero “riconoscente”, vale a dire capace di apprezzare il valore di quanto ha ricevuto non per diritto, ma come un dono. Un dono che ora raggiunge la sua pienezza. La guarigione, infatti, è una grazia, ma solo parziale. Il vero dono, in realtà, è la salvezza, frutto della fede, che permette di incontrare realmente Gesù e di entrare in relazione con lui. Nulla potrà mai essere paragonato a questo bene inestimabile, ma solo l’umile gratitudine rende capaci di accoglierlo e di gioirne pienamente.