XXVII domenica del Tempo ordinario
A cura della Fraternità della Trasfigurazione
Nei versetti che precedono questa pericope Gesù invita i discepoli a non porre limiti alla disponibilità al perdono; la misura che egli propone – sette volte al giorno – può apparire esagerata; il Vangelo non riporta la reazione dei suoi, ma la richiesta che segue, e con cui inizia il brano odierno, suggerisce come di fronte a un impegno apparentemente impossibile i discepoli sentano il bisogno di implorare il dono della fede. Gesù non risponde in modo diretto alla loro richiesta; preferisce usare un’iperbole, un’immagine irrealistica ma soprattutto esagerata, per esprimere l’inaudita potenza della fede. Essa consiste, infatti, in un atteggiamento di piena fiducia nei confronti di Dio, che gli permette di operare sia nella nostra e altrui vita sia nella storia senza incontrare ostacoli e resistenze. Ed è solo perché è Lui ad agire che l’impossibile può realizzarsi. La fede è un’indicibile potenza, come hanno dimostrato non solo i grandi santi ma anche i piccoli, quelli che papa Francesco chiamava “i santi della porta accanto”. Di fronte ai drammi della storia, Auschwitz, Hiroshima nel recente passato e Gaza o l’Ucraina oggi, ci domandiamo il motivo per cui Dio non interviene per mettere fine a un così enorme dolore. Dovremmo piuttosto interrogarci sulla nostra fede, sul nostro credere che Egli è disponibile e desideroso di porre termine a questa infinita sofferenza ed è solo il nostro male ad impedirglielo. Ad Abacuc che lo rimprovera, come forse fanno molti di noi oggi, di restare spettatore dell’oppressione, Dio ne assicura la fine; se essa non si verifica all’istante è solo perché egli non si impone sul malvagio in quanto rispetta troppo la nostra libertà. Segue poi una parabola che parla del rapporto tra servo e padrone. Si tratta di un racconto che sembra contraddire una precedente narrazione. Nel capitolo 12, Gesù ha descritto la ricompensa preparata per i servi fedeli che attendono il loro padrone. Con un gesto che può provenire solo da un Dio – Amore, invita i suoi domestici a sedersi a tavola e poi si mette a servirli. La parabola odierna, al contrario, narra di un padrone che, incontrando un servo al ritorno dal suo lavoro, gli ordina di preparargli il pranzo e servirlo. L’apparente contraddizione esprime semplicemente un cambio di prospettiva. Ciò che sorprende nel primo racconto è l’inattesa e straordinaria reazione di un padrone così amorevole, in cui intravediamo gli atteggiamenti di un Dio che si è umiliato fino al punto di farsi uomo e servo di tutti. Nella narrazione odierna, al contrario, la prospettiva è quella dell’uomo e riguarda il modo in cui è bene considerare il proprio operare. Anche il servo, infatti, può avere delle richieste, rivendicare dei diritti che superano la legittima pretesa di essere trattati con giustizia. Una lettura più approfondita ci aiuta, però, a comprendere che la parabola non ci parla unicamente del nostro servizio, ma della nostra identità; noi siamo “servi” in quanto dipendiamo totalmente da colui che ci ha donato la vita; considerarsi in questo modo non è quindi umiliante, ma riconoscimento di quella realtà creaturale a cui si opposero Adamo ed Eva. Credersi “inutili” non significa quindi ritenersi senza valore, ma ammettere che esso ci è stato donato; farlo fruttificare, di conseguenza, non è un merito, ma la risposta alla vocazione a cui Dio ci ha chiamati: quella di collaborare con Lui.