VI domenica tempo ordinario Mt 5,17-37

 
 

–  La Parola di Gesù vive in eterno  –

a cura di Mons. Alberto Albertazzi –

 

Placatesi le impennate liriche delle beatitudini e le luminescenze della scorsa domenica, si entra oggi nel vivo del discorso della montagna, con un corpulento brano del vangelo di annata (Matteo). Gesù dichiara di non essere uno sfasciacarrozze, ma un rifinitore. Non è infatti venuto a liquidare la legge e i profeti, «ma a dare pieno compimento».

È la logica del Nuovo Testamento rispetto all’Antico, che aveva peraltro già un buon impianto nei dieci comandamenti, sui quali tuttavia occorreva mettere i puntini sulle “i”. A questo “rabbercio ortografico” – se così lo possiamo chiamare – provvede nostro Signore, soprattutto nel passo di questa domenica. Dà garanzia di perennità alla legge, anche nel dettaglio infimo, destinato a rimanere in vigore «finché il sole risplenderà sulle sciagure umane», per dirla col Foscolo.
I comandamenti, ancor prima di regolare l’azione umana, hanno una radice intenzionale da non sottovalutarsi. L’odio, il disprezzo verso il prossimo, adirarsi con lui, anche senza farci scappare il morto, non è molto diverso dall’omicidio. Gesù dunque alza il prezzo e si cimenta con una severità che si travasa anche nel culto: portare un’offerta all’altare avendo della ruggine verso qualcuno, non è un sincero atto di culto. Travasando il principio in regime eucaristico, potremmo parafrasare in questo modo: se stai per fare la comunione e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, rinuncia alla comunione, vai a riconciliarti con lui e la domenica successiva potrai ricevere l’eucaristia.

In altri termini, non si può essere in pace con Dio se non si è in pace col prossimo (cfr 1 Gv 4,20). Gli stati d’animo dunque, a prescindere da azioni concrete, hanno consistenza etica. La radice del bene e del male, della virtù e del vizio è nella profondità abissale del cuore umano (Sal 63,7). Se poi lo stesso principio viene fatto valere anche sul sesto comandamento, è il caso di dire: si salvi chi può. L’adulterio non si deve commettere, il comandamento è chiaro; ma guardare con desiderio la persona altrui è adulterio interiore. Credo che questa avvertenza sia una messa in guardia. Chi troppo desidera prima o poi ci casca. Ecco l’arguzia sapientissima del nono e decimo comandamento, da intendersi come calmieri al desiderio rispettivamente verso il coniuge e la roba altrui.

Cautela pure nei giuramenti e schietta sobrietà nel linguaggio: «Sia il vostro parlare sì, sì, no, no», in maniera netta, evitando arabeschi e sfumature che non fanno altro che rendere equivoco il modo di esprimersi. Variazioni sul tema del quinto e del sesto comandamento, per poi ripiombare fra il primo e il secondo a proposito di giuramento, a quei tempi sempre fatto nel nome di Dio e non sulla Costituzione della repubblica.
Ma ciò che impressiona in questa pagina è la grandiosità cosmica dell’enunciato di inizio: «In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della legge, senza che tutto sia avvenuto». Matteo è un ebreo che scrive per ebrei, quindi ce la mette tutta per valorizzare la legge, riportando, compiaciuto, questo supremo enunciato di Gesù, cui segue pure l’invito a insegnarla per avere la strada spianata verso il regno dei cieli.

Ma la legge resta in vigore finché resistono cielo e terra. E dopo? Lo dice ancora Gesù in quello che, a parer mio, è l’enunciato più grandioso di tutta Bibbia: «Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno» (Mt 25,35). E, per non smentirmi, concludo con un’eco dantesca a queste intramontabili parole: «Ciascun rivedrà la trista tomba, / ripiglierà sua carne e sua figura, / udirà quel ch’io eterno rimbomba!» (Inferno VI 97-99).

Ossia le parole di Gesù, anche se Dante probabilmente pensava all’irreversibilità del giudizio definitivo.