V domenica di Pasqua

A cura della Fraternità della Trasfigurazione
Dopo che Gesù lava i piedi agli apostoli e annuncia il tradimento di Giuda, questi esce dal cenacolo per immergersi nella notte del suo peccato. Il Maestro e i suoi rimangono invece insieme, nella luce calda di un’intimità ben espressa dall’appellativo con cui egli si rivolge loro: “Figlioli”. A questo punto si verifica un cambiamento di linguaggio, che possiamo considerare come una chiave interpretativa di quanto è appena accaduto e dei fatti successivi: Gesù non parla più in prima persona, si riferisce a sé stesso con il termine “Figlio dell’uomo”, e guarda alla realtà da una prospettiva diversa, come se fosse già risorto. Il suo è un grido di giubilo per la glorificazione, qui presentata come già avvenuta. “Gloria”, “glorificazione” non sono termini di facile interpretazione per noi che li associamo automaticamente all’idea di successo, plauso, notorietà; non è in tal senso, però, che dobbiamo interpretare quanto Gesù sta dicendo. In questo caso, infatti, la gloria non è quella dell’uomo di tutti i tempi che si illude di poter ostentare il proprio valore, ma si riferisce al “peso”, alla “consistenza” di una realtà. Lavando i piedi ai suoi Gesù ha mostrato il peso, la consistenza luminosa, la bellezza sfolgorante dell’amore e in tal modo ha manifestato la gloria splendente del Padre, ne ha rivelato il mistero svelando l’infinita grandezza dell’umile amore. Solo guardando da questa prospettiva quanto è avvenuto e ciò che sta per accadere, ovvero la passione e morte di Gesù, il discepolo – e noi con lui – sarà in grado di leggere e interpretare il senso dell’esperienza da lui vissuta alla sequela del Maestro e anche la sua prossima partenza. Nel momento dell’intimità più profonda – in tutto il Vangelo di Giovanni, infatti, questa è l’unica volta in cui nel greco è utilizzato il termine “Figlioli” – viene annunciata l’imminenza del distacco più doloroso. Incurante del male che sta per accanirsi contro di lui, Gesù si preoccupa di preparare i suoi a vivere la sua assenza non come una perdita irrimediabile, ma come un’occasione per apprendere un modo diverso di relazionarsi con lui. Questo potrà realizzarsi attraverso il salto della fede, che permette di sperimentare anche nella mancanza la viva presenza della persona amata, e per mezzo dell’amore reciproco. A questo punto, infatti, Gesù dà ai suoi un comandamento che definisce “nuovo”: quello di un amore vicendevole. Il termine “comandamento” non deve trarre in inganno: non si tratta di un ordine esigente impartito ai suoi, ma della condivisione del segreto più intimo della vita del Signore, talmente importante da essere percepito come una legge che dà senso e orienta la vita. Come mai lo si considera nuovo? Nuovo in quanto ha un’origine diversa rispetto al pur lodevole amore umano. Tale differenza è spiegata nel versetto successivo: “come io vi ho amato”, un “come” che non indica un modo, ma una causa. È proprio perché Gesù ci ha amati e noi abbiamo ricevuto questo amore che ora possiamo condividerlo tra di noi, comunicarcelo reciprocamente. Questo è il grande segreto che il Signore ci ha confidato: dentro di noi scorre la vita di Dio, una vita che, quando è condivisa e partecipata ai fratelli, testimonia la presenza del Risorto fra di noi e fa esclamare agli altri: “Guardate come si amano”, proprio come testimoniò nei primi secoli del cristianesimo lo scrittore Tertulliano.