Un pensiero tira l’altro

 
 

a cura di Mons. Alberto Albertazzi

alberipazzi@gmail.com

Interrompiamo questa volta la passerella salmodica dei mesi scorsi, a mettiamoci sull’attualità. Fa bene ogni tanto cambiare discorso.

In questa anomala primavera s’è registrato un fatto che ha attirato l’attenzione mediatica: una ragazza smarrita in Africa è stata ritrovata dopo diciotto mesi. L’uscita della donzella dall’aereo che la raccattò è stata un po’ da marcia trionfale dell’Aida di Verdi. Ad accoglierla una moltitudine nella quale svettavano autorità istituzionali di elevato livello. E naturalmente in prima linea, come è ben comprensibile, i famigliari che l’hanno potuta finalmente riabbracciare.

Può darsi che questo abbraccio fosse un po’ inceppato, proprio nell’atto fisico, dal sovrabbondante abbigliamento, nel quale riusciva abbastanza difficile riconoscere una ragazza nostrana. Già qualche giorno prima circolava la voce che la smarrita, finalmente ritrovata ma solo fisicamente, forse avesse avuto tutto il tempo di islamizzarsi. Il suo svolazzante drappeggio ha fatto cadere il “forse”: si era effettivamente consegnata ad Allah tramite Maometto! Che dire?

Occorre pensarci con calma, partendo dalle sue dichiarazioni, ritenendole sincere fino a prova contraria. Ha dichiarato che il suo spostamento sul Corano è avvenuto liberamente, senza subire alcuna pressione. Fu lei a chiederne il volume, lo lesse, e passò all’Islam, salutando il Cristianesimo.

Mi vengono un paio di domande: com’era il suo Cristianesimo? Ha dichiarato d’avere letto il Corano, ma ha letto almeno una volta almeno i Vangeli? Sì o no?

Se sì, la scelta va rispettata: non è il primo caso di passaggio da una religione all’altra, in ambo i sensi. Non dobbiamo dimenticare che esistono anche islamici che diventano cristiani, forse rischiando qualcosa;

Se no, la decisione è stata affrettata e superficiale, per non dire di comodo.

Per cambiare religione non è sufficiente essere disgustati di come la professano quelli che ci sono nati dentro. Bisogna valutare seriamente che cosa si lascia e dove si va a finire. E questo è possibile solo tramite un’attenta lettura dei testi base della religione di partenza e di quella di arrivo. L’esatta fisionomia religiosa si trova lì, non nel regime di vita dei seguaci. Spero che la nostra neo-islamica abbia affrontato un travaglio intellettuale e spirituale, prima di confezionarsi nella moda islamica.

Le reazioni nei confronti di lei sono variegate. Gioia comprensibilissima da parte della famiglia, di amici, conoscenti, per averla comunque riavuta. Ma a parer mio non era il caso che il parroco suonasse le campane a festa. Mi sembra che un elevato uomo di chiesa abbia detto, un po’ tipo figliol prodigo (cfr Lc 15,24): “Abbiamo ritrovato una nostra figlia”. Ma l’ha potuto dire solo in quanto italiana. Delusione da parte di chi magari sperava di vederla ancora in jeans. Rabbia, insulti e persino minacce da parte degli ottusi, i quali farebbero bene ad allargare l’orizzonte mentale.

Mi spiego. Se Dio è uno solo, le religioni differiscono nel modo di presentarcelo e di metterci in rapporto con lui: elementi peraltro decisivi agli effetti dell’attendibilità della religione stessa. Certo per un cristiano convinto e consapevole è sempre doloroso che un fratello/sorella di fede a un certo punto biografico venga a preferire Maometto a Gesù Cristo; e, presumo, viceversa. Ma in ogni caso, almeno soggettivamente, il rapporto con Dio è garantito: un Dio da intendersi alla sant’Anselmo d’Aosta († 1093), ossia “ l’Essere del quale è impossibile pensarne uno più grande ” (1).

La religione si può cambiare e qualche volta capita: ne stiamo appunto parlando. Ma si può anche azzerare. Ed è questo il fenomeno dalle nostre parti più diffuso e preoccupante: il menefreghismo occidentale, programmato e calcolato, nei confronti di Dio.

Perché prendersela tanto con una ragazza che lascia il Vangelo per il Corano e accettare tranquillamente che il Vangelo, se mai è stato letto, sia accantonato come programma di vita subito dopo la prima comunione, per aumentarne la distanza dopo ricevuta la cresima, progettando per giunta la vita successiva su catene di matrimoni “fa e disfa”? Come se il Vangelo non fosse di ben altro parere. Scippare i sacramenti, secondo un’usanza assai diffusa, per fregarsene subito dopo, mi sembra ben più grave che trasferirsi da Cristo a Maometto. E questo deve farci pensare almeno un pochino e risvegliarci sulle nostre responsabilità religiose.

Le religioni si propongono al pensiero umano innanzitutto come rampa di lancio verso la vita eterna. Se manca questo elemento decisivo, svanisce la religione; e un movimento di pensiero con pretese religiose ma silente sull’eternità, in automatico si acquatta su una peraltro rispettabile filosofia esistenziale. Ma il tasto dell’eternità deve essere pigiato da chi ha responsabilità religiose. Ed eccomi alla mia fissa: di eternità non si parla più, o non se ne parla quanto si dovrebbe. Non può essere questo uno dei motivi per cui il cristianesimo dalle nostre parti sta perdendo colpi a più non posso?

Aggiungo che la religione non solo si propone di educarci al senso di Dio e della sua atmosfera che è l’eternità. Ma deve anche educarci a percepire, o almeno a ipotizzare, lo zampino di Dio nelle nostre vicende. E ciò che mi sono permesso di chiamare zampino è meglio detto “provvidenza”. Che è costei? E’ l’accorta vigilanza di Dio sulla storia dell’uomo: non soltanto quando ci fa comodo, ma anche quando ci fa il contro pelo!

E’ così audace, religiosamente ragionando, almeno ipotizzare che il coronavirus possa essere un castigo di Dio, stufo del diffusissimo menefreghismo, soprattutto occidentale, nei suoi confronti?

Non l’ho sentito dire da nessun autorevole uomo di Chiesa, neppure con tutto lo spreco di condizionali con cui cautamente si esprimono le ipotesi. Il concetto di castigo è tramontato da quando il famigerato Sessantotto ha cercato di inalberare il garantito “18 politico” agli esami universitari! Ma teniamo ben presente che il solo possibile, anche non concretamente dimostrato, deve fare riflettere e in certi casi può disseminare nell’animo umano almeno un pizzico di salutare inquietudine.

Il castigo è un classico della robusta pedagogia tradizionale che ha il suo teorema del detto “quando ci vuole, ci vuole”. Perché non almeno ipotizzare che, se Dio lo vogliano chiamare Padre, ci possa infliggere qualche castigo correttivo (cfr Ger 36,1-3)? Se lo chiede la Lettera agli Ebrei (12,7) citando il libro dei Proverbi (3,11-12):

“Figlio mio, non disprezzare la correzione del Signore e non ti perdere d’animo quando sei ripreso da lui; perché il Signore corregge colui che egli ama e percuote chiunque riconosce come figlio” (Pv 3,11-12) E’ per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non viene corretto dal padre? (Ebr 12,7).

La Bibbia interpreta non poche calamità come castigo di Dio, a partire dal diluvio (Gen 6,12-13; 19,12-14). E anche epidemie o pandemie che fossero (Es 12,29-34; 2 Sam 24,117; 2Re 19,35-36 = Is 37,36 ecc.). Perché non mettere in coda anche il coronavirus? Non ne abbiamo la certezza, ma neanche la certezza del contrario. Però almeno ipotizzarlo ci fa bene, metabolizzando il tutto con la flemmatica indifferenza di Giobbe alla moglie: “ Se da Dio accettiamo il bene , perché non dovremmo accettare il male? ” (Gb 2,10).

Se la Chiesa non ha il coraggio di dire che il covid 19 potrebbe essere un castigo di Dio, si annacqua al livello di tutti gli altri opinionisti, trascurando il suo specifico filtro interpretativo delle vicende del pianeta. E potrebbe aggiungere a compensazione che i castighi di Dio sono ben bilanciati perché non sono solo afflittivi, ma anche risananti: la chiusura totale per coronavirus non ha forse restituito un po’ di vitalità alla natura, che gli uomini stanno massacrando?

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1 “Ens quo maius cogitari nequit” (Proslogion II).