Seconda Domenica di Pasqua, Gv 20,19-31

 
 

–  Cristo ci invita a fidarsi di lui

a cura di Mons. Alberto Albertazzi – alberipazzi@gmail.com –

Protagonista di questa domenica direi che sia quel numero unico di Tommaso, che però non possiamo troppo biasimare perché noi, al suo posto, ci saremmo comportati allo stesso modo: credere all’incredibile non è facile. E Tommaso è divenuto il prototipo della prova sperimentale prima di sbilanciarsi sulla fede: «Se non vedo, se non tocco, non credo». La contraddizione è marchiana: l’evidenza non ha più bisogno della fede! La quale si scomoda quando l’evidenza manca. Ma procediamo per punti.
Siamo alla sera di pasqua, “primo giorno della settimana”. C’è ancora la mentalità semitica che mette il sabato a conclusione di settimana. Gesù, con una corporeità più metafisica che fisica, entra a porte chiuse «dove si trovavano i discepoli per timore dei giudei». Presenta loro i suoi inconfondibili connotati, ossia mani e piedi da poco cicatrizzati, provocando in essi grande gioia. Si presenta a mani vuote, perché forse ancora doloranti, ma con un dono prezioso comunicato per via orale: l’annuncio di pace e il dono dello Spirito Santo, insufflato sui destinatari, per abilitarli alla remissione dei peccati. Fra questi due doni interconnessi risuona la missione: «Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi». Da questo momento i dieci diventano ufficialmente apostoli.
Il soffio di Gesù, secondo bibliche associazioni di idee, simboleggia lo Spirito di Dio, ossia lo Spirito Santo, che è realtà essenzialmente immateriale, dunque ben significata dall’alito che fra tutte le presenze fisiche è la meno corporea.
Ho detto che Gesù spedisce i dieci, non i dodici. Sì, perché Giuda sappiamo che fine aveva fatto e Tommaso non si sa dove si fosse cacciato. Quando ritorna, i colleghi non possono tenere la bocca chiusa e, informato dei fatti, il discepolo eleva la barriera di un’arrogante incredulità, esternata in termini di sfida e scommessa: sperimentare per credere. Quanto basta per essere preso in parola. Otto giorni dopo Gesù ricompare. Dunque un altro primo giorno dopo il sabato; dunque un’altra domenica. La domenica quindi prende a emergere e a qualificarsi come giorno privilegiato per memorie pasquali, rinnovate in altri scritti del Nuovo Testamento (At 20,5-12; 1 Cor 16,2), che la indicano ancora scialbamente come «primo giorno dopo il sabato». Il nobile titolo di domenica non tarda a essere inventato: lo si deve al genio onomastico di Giovanni, che asserisce di avere avuto la sua grandiosa visione apocalittica in giorno di domenica (Ap 1,10). Ma torniamo a Tommaso.
Gesù lo invita a toccare le cicatrici ancora visibili della crocifissione, con l’esortazione a non essere più incredulo ma credente. A questo punto Tommaso si arrende con una sintetica e convinta professione di fede: «Mio Signore e mio Dio». È l’ultima delle non poche che inghirlandano il vangelo di Giovanni (1,59; 6,69; 11,27). E la scena si conclude con l’ultima beatitudine enunciata da Gesù: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto». Che la fede potesse essere remunerata da una beatitudine c’era da aspettarselo.

È una beatitudine estensibile a tutti i cristiani degni di questo nome. La fede è forse la più audace delle virtù, in quanto è una consegna intellettuale a enunciati privi del supporto di evidenza. È un po’ un fidarsi alla cieca, e forse proprio per questo, per soppesarne lo spessore, san Pietro esamina così meticolosamente Dante proprio sulla fede (Paradiso XXIV 46-111). E il poeta addobba, nella carrozzeria letteraria dell’endecasillabo in terzina, la definizione che leggiamo nella Lettera agli Ebrei (11,1), e scocca: «fede è sostanza di cose sperate / e argomento delle non parventi; / e questa pare a me sua quiditate» (vv. 64-66).