Santi Pietro e Paolo

A cura della Fraternità della Trasfigurazione
Oggi la Chiesa celebra la solennità dei santi Pietro e Paolo e forse viene spontaneo domandarsi se questi due pilastri della nostra fede non meriterebbero ciascuno una sua festa, come avviene invece per la maggioranza degli altri apostoli. Il ricordarli insieme, tuttavia, mette maggiormente in risalto la dimensione comunionale della Chiesa, dove l’uno e il molteplice devono necessariamente coesistere. È un Paolo che ha attraversato il crogiolo della sofferenza e sente vicina la morte, quello che ci viene presentato nella seconda lettura; la sua fede, tuttavia, rimane salda, irriducibile, senza sbavature. “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede”; questa affermazione lapidaria ben descrive la personalità dell’apostolo, il suo coraggio, la tempra da lottatore, la capacità di orientare la vita verso un unico scopo, l’illacerabile coerenza. Un uomo “tutto d’un pezzo”, Paolo, a cui, se fossimo stati noi a dover scegliere, avremmo probabilmente affidato il ministero di guidare e confermare i fratelli, invece che a Pietro. Gesù, però, ha optato proprio per quest’ultimo, uno degli apostoli della prima ora, con le sue grandezze e fragilità, che conosce la codardia e il rinnegamento ma, nello stesso tempo e per tale motivo, ha sperimentato di persona che cosa significa essere amati e perdonati. Il Vangelo di oggi ce lo presenta a Cesarea di Filippo insieme al Maestro e agli altri discepoli. Qui Gesù, come spesso avviene, pone una domanda: “La gente chi dice che sia il Figlio dell’Uomo?”. Si tratta di un interrogativo tutt’altro che banale, poiché quel “chi” posto al centro della questione mira a far riflettere in merito alla sua identità. Egli, tuttavia, in un primo momento interroga gli apostoli in modo impersonale, quasi prendendo le distanze, oggettivando il problema come se si trattasse di una questione riguardante degli estranei e non loro; probabilmente non vuole influenzarli, ma lasciarli invece completamente liberi. Le prime risposte sono generiche e si rifanno al passato: la gente, infatti, non ha ancora percepito la novità di Gesù e nemmeno la sua unicità. Ed ecco che il Maestro si fa più prossimo, più vicino: non si tratta più di “gente” e di “Figlio dell’Uomo”, ma di “voi” e di “io”. La domanda mette in risalto quanto sta alla base della fede intesa non come un insieme di credenze, ma come una relazione e deve necessariamente mettere in questione ogni credente; si tratta dello stesso interrogativo che, secondo quanto scrivono i Fioretti, interpellava san Francesco quando sul monte della Verna pregava dicendo: “Chi sei tu, dolcissimo Dio mio?”. Ed è Pietro che risponde, grazie a un’intuizione non proveniente dalle sue capacità naturali, ma ispirata dall’alto; proprio questo “insight”, questa presa di coscienza gli permette di percepire che quel Maestro con cui egli condivide la vita è il Figlio di Dio, quel Dio che poteva apparirgli così distante e misterioso, ma ora invece si presenta accessibile e vicino. Pietro dimostra in questo modo di aver compreso non solo con l’intelligenza, ma con la totalità della sua persona, che la fede è prima di tutto questa relazione personale, questa risposta all’interrogativo: “Chi sono io per te?”. Proprio per tale motivo, grazie a questo dono che viene dall’Alto ed è ancora più importante delle sue doti e fragilità, egli diventerà la roccia su cui il Signore edificherà la sua Chiesa, il luogo della comunione tra fratelli che si sanno figli di Dio e vivono nell’amore vicendevole e verso di Lui.