Riportare Cristo al centro della vita

 
 

Conclusione dell’anno della fede, Cristo Re. Anno C, Cattedrale

  1. Celebrando, oggi, l’ultima domenica dell’anno liturgico viene spontaneo alzare lo sguardo sul mirabile crocifisso della cattedrale, al centro dello spazio sotto la cupola dell’arch. Larghi: è un’immagine potente del Cristo Re dell’universo.
    Anche i non credenti possono sperimentare la gioia di una contemplazione estetica, come gusto per il bello.
    Ma il nostro sguardo di fede sa vedere e unifica in quell’immagine due volti di Cristo: della sua morte e della sua vita risorta. Gesù, infatti, nel Vangelo non separa mai il suo futuro doloroso dal suo futuro glorioso.
    Anche le catechesi delle comunità cristiane delle origini non cominciano da Betlemme, ma dal calvario; là dove il Cristo muore e risorge, è sconfitto dalla morte ed è vittorioso sulla morte.
  2. Per questo, oggi, festa di Cristo Re, stanno davanti a noi due immagini del Signore: la prima è da ascoltare, attraverso la pagina del vangelo di Luca; la seconda è da vedere con gli occhi.
    L’accostamento liturgico della Parola è ardito: Luca ci propone la più drammatica icona che il tempo conserva: la Croce. Solo la fede consente di cogliere insieme regalità e croce. Per la ragione sono abissalmente distanti. Anzi, una annulla l’altra.

La croce, per il terzo evangelista, sembra collocarsi all’incrocio di due movimenti, due poteri. Anzitutto l’onda fangosa che sale dal basso, dal colore oscuro del mondo. E’ lo stesso potere che ha condannato Gesù, gli ha gettato il legno sulle spalle, lo ha mandato fuori dalle mura, lo ha trascinato sul “luogo del cranio”, lo ha innalzato tra cielo e terra. Il Crocifisso è in balia dell’accanimento del potere mondano; viene sfidato da tutti; dalla folla: “Il popolo stava a vedere”. Lo stare a vedere sembra nascondere paura, indifferenza, curiosità, stupore. Alla fine, Luca dirà che tutta quella gente, ripensando all’accaduto, “se ne tornava percuotendosi il petto” (23,48).
Ma la sfida più feroce viene dai capi, dai soldati e da uno dei malfattori. In essa c’è violenza, scherno, derisione: è inconcepibile per il potere del mondo un re in croce.

Ma il potere di Dio ha un’altra direzione, opposta: dall’alto, verso la folla inferocita. Luca la indica con la parola scandalosa, non facilmente credibile: “Padre perdona loro”. Non a caso alcuni manoscritti del vangelo hanno cancellato il versetto 34 con la parola perdono.
Il Figlio crocifisso, tra cielo e terra, contemplato da Luca, sta sotto la commovente preghiera del perdono. Il “vangelo della misericordia” si chiude con il movimento discendente del dono infinito e paziente di Dio, che tracima l’onda violenta dei poteri umani; e diventa promessa di salvezza nel cuore pentito del ladrone buono, il quale diventa il modello di ogni peccatore salvato dalla misericordia.
Ma il Vangelo non mette la parola “fine” sul calvario, il venerdì della croce. Gesù sconfigge la morte. “Gesù, dice Paolo nella lettera ai Colossesi, è “il principio, il primogenito di coloro che risuscitano dai morti, per ottenere il primato su tutte le cose” (Col 1,18).
Davanti a quell’icona, la ragione dice: tutto finisce; la fede, invece, dice: tutto comincia.

  1. Il volto regale, infatti, racconta la seconda genesi dell’ umanità. Quel volto mirabile che ci guarda dallo spazio centrale della cattedrale, non dice solo il mistero di una vittoria sulla morte; ma suggerisce un programma di vita, racconta una storia singolare.

Il Cristo regale, creato dall’intelligenza della nostra gloriosa storia religiosa, negli ultimi trent’anni sembra raccontare una vicenda che parla alla nostra vita.

La notte tra l’11 e il 12 ottobre 1983 (trent’anni fa) quell’immagine straordinaria, collocata nella cappella laterale vicina alla porta di entrata, veniva orrendamente profanata; il corpo di Gesù fu sventrato, lacerato; divenne oggetto di scempio in mani sacrileghe. Qualcuno pianse vedendo quello squarcio di calvario. Solo il volto rimase intatto: forse per fissare negli occhi i profanatori e richiamarli al ravvedimento; forse per ripetere: “Padre, perdonali, non sanno quello che fanno”.
Immediatamente il Crocifisso giovanneo fu portato a Torino per il restauro; e dopo dieci anni, ricuperato nella sua splendente bellezza, fece ritorno in questa cattedrale e fu collocato nella cappella del beato Amedeo.
Anche papa Giovanni Paolo II, venuto a Vercelli per la beatificazione di don Secondo, il mattino di domenica 24 maggio 1998, in visita alla cattedrale, rimase estatico davanti a quel volto splendente di rara bellezza.

La celebrazione giubilare dell’anno 2000 suggerì una diversa collocazione del grande Crocifisso: si voleva riportarlo al centro della cattedrale, davanti agli occhi della comunità credente.
Questo passaggio da una cappella laterale alla collocazione centrale, quale appare oggi, non fu facile. Incontri e scritti con la Sovrintendenza regionale della belle arti, rivelò subito la fatica di quel trasferimento. Ma una mia affermazione sembrò convincente: “Il Crocifisso della cattedrale non è solo oggetto di ammirazione estetica per i turisti; ma è il segno più importante della fede dei credenti: da adorare e da pregare”.
E così, il 4 gennaio, 2001, il Crocifisso veniva portato qui, sotto la cupola; e prima di alzarlo sino all’altezza indicata, feci con i tecnici addetti, una breve preghiera; e lentamente il Crocifisso raggiunse la sua attuale collocazione.
Forse la Sovrintendenza regionale non conosceva la grande sintesi teologica del vescovo francese, Bossuet: “Nulla al mondo è più grande di Cristo; e in Cristo nulla è più grande della sua morte e risurrezione”.

  1. Per questo, il Crocifisso regale della cattedrale, dice la centralità di Cristo Re, non solo in questo spazio silenzioso e solenne, sotto la cupola di Carlo Larghi; ma dice un programma di vita:
    Forse è faticoso riportare il Cristo crocifisso al centro della vita. Ma questa è la grande consegna che ci ripetono i tre eventi ricordati in questa Eucaristia.

Ce lo disse papa Benedetto, quando indisse l’anno della fede che oggi viene concluso: “L’anno della fede è un invito ad una autentica e rinnovata conversione al Signore, unico Salvatore del mondo”. Cristo al centro della vita.

Ce lo disse Paolo VI nella solenne omelia del 7 dicembre 1965, concludendo l’evento ecclesiale del secolo, il Concilio Vaticano II: “Noi ricordiamo come nel volto di ogni uomo, specialmente se reso trasparente dalle sue lacrime e dai suoi dolori, possiamo e dobbiamo ravvisare il volto di Cristo…Il nostro umanesimo si fa cristianesimo.”(omelia n 462*). Il Cristo, nell’intento del Concilio diventava il segreto di una Chiesa viva. Lo diceva ancora Paolo VI in un’altra omelia del 28 ottobre 1965: “La Chiesa vive! eccone la prova: eccone il respiro, la voce, il canto. La Chiesa vive!”.

Ce lo ha detto oggi papa Francesco concludendo l’anno della fede: “ Cristo si erge al centro della creazione, della storia e della nostra vita”.
E così la memoria cinquantenaria del Concilio, la conclusione dell’anno della fede, la festa di Cristo Re, ci dicono, all’unisono, lo stesso invito: riportiamo Cristo al centro della vita.
La fede non è un problema tra i problemi. E’ la stella polare della vita. Se Cristo ritorna al centro della nostra vita e della nostra famiglia, ritorna efficace la speranza.
Cari amici, c’è il Crocifisso sulle pareti delle nostre case?
Soprattutto nei luoghi della sofferenza quel segno è l’unico che può dare consolazione; è il segreto per vivere e parlare di speranza; il solo capace di asciugare le nostre lacrime.