PIU’ MISERICORDIA CHE GIUBILEO – L’angolo di don Alberto

 
 

Se misericordia è propensione al perdono, il sacramentum princeps (=sacramento principale) dell’imminente giubileo (ennesimo) dovrebbe essere la confessione, oggi catastroficamente in ribasso. Mi propongo in questo foglio di visitare un famoso episodio di misericordia raccontato nel Vangelo di Luca (7,36-50).

Mi riferisco a una signora impietosamente bollata come “peccatrice di quella città” (Lc 7,37). Non si dice di quale città e che peccati facesse ma lo si immagina. L’etichetta che la manda in scena tende a definirla come peccatrice professionista, ben nota ai cittadini o almeno al ragguardevole fariseo che aveva invitato Gesù a pranzo. Pensare che il fariseo, per conoscerla come peccatrice (7,39), potesse esserne cliente è esagerato. Questa donna usa verso Gesù raffinati e struggenti riguardi: «… stando dietro, presso i piedi di lui, piangendo, cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i capelli, li baciava e li cospargeva di profumo» (7,38). C’è subito un problema tecnico. Come faceva costei ad avere i piedi di Gesù a portata di lacrime e di tutto il resto, dato che i piedi quando si è a tavola stanno sotto il tavolo e sono raggiungibili solo da gatti eventualmente circolanti? Probabilmente in quella circostanza si mangiava raffinatamente alla romana, ossia adagiati su brandine (come la Paolina Borghese del Canova, seppure un po’ più drappeggiati). I piedi rimanevano protesi verso l’esterno e ci si appoggiava sul gomito sinistro portando gli alimenti alla bocca con la mano destra. O il contrario se si era mancini. I piedi di Gesù erano dunque facilmente annaffiabili con la più nobile delle secrezioni umane (le lacrime). Per giunta le scarpe non erano ancora state inventate, quindi le lacrime raggiungevano direttamente i piedi, senza l’intralcio della tomaia.

Ciò che stupisce è la proporzione di quel pianto così alluvionale da esondare in pediluvio. Se per asciugare piedi con i capelli occorrono i capelli, è ovvio che la signora non era calva. Baciare i piedi a qualcuno, non essendo fra gli accessori più nobili dell’anatomia umana seppur comodi per camminare, è segno di venerazione illimitata. Il profumo sparso su quei piedi, così eterei da poter camminare sulle acque (cfr Mt 14,25-26), viene automaticamente nobilitato. Doveva trattarsi di un profumo irresistibile, che accalappiava i clienti di cui anche solo in transito sfrizzolava le narici: un po’ come le sirene di Ulisse che catturavano col canto il malcapitato. L’astuto eroe greco si fece legare all’albero della nave per poterle udire senza finirne preda, ma tappò con cera le orecchie ai suoi marinai perché andassero avanti a remare senza finire nella trappola. Ma torniamo al profumo in questione.

Per non inciampare in quel profumo occorreva stringersi il naso con le mollette del bucato, forse non ancora inventate. Dopo il contatto con i piedi di Gesù quel profumo ha smesso di essere rampa di lancio verso il peccato, ed è diventato fattore di misericordia, insieme con gli altri onori accordati ai medesimi. E la misericordia scatta subito dopo bacchettato il fariseo per eccesso di indignazione, seppure solo mentale. Gesù fornisce al fariseo il motivo dell’accordato perdono: «Sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato» (Lc 7,47). E pronuncia la formula assolutoria: «I tuoi peccati sono perdonati» (Lc 7,48). Subito dopo lo sconcerto degli astanti, per l’audacia di tale dichiarazione che si arrogava prerogative divine, Gesù completa: «La tua fede ti ha salvata, va’ in pace» (Lc 7,50). Fede e amore sono il tandem virtuoso che produce la pace dell’ottenuto perdono.

La dinamica della misericordia non poteva essere meglio narrata. Il gesto prevale sulla parola. Quella donna non dice nulla, si limita ad agire. Ma i suoi gesti sono di una eloquenza stupefacente, compiuti in un crescendo sapientissimo e probabilmente non calcolato. Nell’agire di quella donna tutto è spontaneo. Le lacrime non sgorgano a gettone, l’idea di asciugarle coi capelli ha l’aria di un’intuizione improvvisa. E nell’unzione dei piedi mi sembra di ravvisare un’esortazione che potremmo verbalizzare così: «Non cercate chi professionalmente vi attrae con questo seducente profumo per pilotarvi al peccato, ma seguite i piedi che ora ne sono unti, perché vi guidano alla virtù e al bene».

Le parole di Gesù a quella donna sono laconiche. Gesù, quando vede la sincerità della conversione, non spreca parole se non quanto basta per siglarla autorevolmente. Quella donna aveva già ottenuto tutto senza spifferare neppure uno solo dei suoi molti peccati, forse di una sola specie.

Un episodio minimo che vale un Giubileo della misericordia, e più ancora. Non vi è nulla di ostentato, non c’è appariscenza, non spettacolarità. Il pentimento e il perdono sono atteggiamenti troppo intimi e personali per esteriorizzarsi. Eppure ogni tanto capita di sentire urlare dei perdoni televisivi dai familiari di un assassinato. Non metto in dubbio la sincerità del perdono sbraitato, ma quella ostentata misericordia non è nello stile di nostro Signore, che preferisce somministrala clandestinamente.

Esiste una misericordia attiva e una misericordia passiva. La prima è quella che si concede, la seconda è quella che si ottiene. A Dio compete solo la prima, perché non ha bisogno di misericordia altrui; all’uomo la prima e la seconda, tra loro collegate con una sapiente reciprocità: la seconda non si ottiene se non si concede la prima. In altre parole: se desidero il perdono di Dio bisogna che io perdoni il mio prossimo (cfr Mt 6,14).

Non vorrei che nel Giubileo della Misericordia l’elemento giubileo prevalga sull’elemento misericordia.

Per “elemento giubileo” intendo gli apparati celebrativi troppe volte visti in questi ultimi decenni nei troppi giubilei che si sono indetti. Porte (più o meno sante) che si aprono e si chiudono, pellegrinaggi a vario raggio con tutte le comodità di viaggio e di alloggio, scenografie paraliturgiche in chiese prestigiose e di vasto richiamo, convegni e tavole rotonde sui temi connessi. Cose tutte che non fanno altro che sovradimensionare una Chiesa in affanno, almeno dalle nostre parti. Tutte queste cose le abbiamo fatte e viste troppe volte, senza registrare un’apprezzabile ricaduta nel vissuto individuale e sociale quotidiano.

La misericordia è troppo divina e raffinata per farne un “expo della misericordia”. Il vero protagonista, se non il protagonista unico, di questo giubileo, idealmente bellissimo e ancora in tempo per essere seriamente gestito, dovrebbe essere il confessionale, cui accostarsi non con la gestualità un po’ ingombrante della donna di cui sopra, ma con i sentimenti che l’anno provocata. E i preti dovrebbero trovarsi il tempo di stazionare in confessionale, magari anche senza nessuno che arrivi a confessarsi: ma la loro presenza lì resta sempre un richiamo e il tempo trascorso in chiesa non è mai sprecato. Resto del parere che lo straordinario più efficace sia fare bene l’ordinario.