La solennità di Pentecoste

 
 

A cura della Fraternità della Trasfigurazione

Il binomio “amare/osservare i comandamenti” attraversa tutta la Scrittura e più volte lo ritroviamo nel Vangelo di Giovanni. Mettere in pratica quanto viene richiesto o desiderato dall’altro è esigenza di ogni amore e, di conseguenza, anche di quello del discepolo nei confronti del suo Maestro; in caso contrario il suo bene si limiterebbe a un insieme di parole fumose e inconsistenti senza coinvolgimento e impegno della persona. Questo amore concreto non rimane inascoltato e nel Vangelo odierno Giovanni ne descrive gli effetti. Il primo ha origine nella richiesta che Gesù rivolge al Padre e si concretizza nell’invio del Paraclito, l’Avvocato, colui che è chiamato presso di noi e rimane in noi; il secondo consiste nell’amore del Padre verso il discepolo e nel suo dimorare presso di lui con il Figlio. Si tratta di due promesse a cui non possiamo prestare un’attenzione superficiale. Ospitare qualcuno in casa propria e condividere con lui tutta la vita è segno di profondissima intimità e grande comunione ed è proprio quanto Gesù promette ai suoi, chiamati a diventare il luogo ospitale in cui la Trinità può vivere la sua vita e comunicare la sua parola. Tale spazio interiore non conosce, però, solo la dolce pace che promana dalla presenza di Dio. Lo Spirito Santo che il Padre invia perché rimanga con noi per sempre non è un essere inattivo, ma una forza dirompente e trasformante. Egli è “un altro” rispetto a Gesù, ma agisce in riferimento a lui; presente nei discepoli come segno dell’Alleanza ormai compiuta, ha la funzione di far loro assimilare tutta la verità che riguarda la persona del Figlio e di far comprendere il senso del suo insegnamento. È l’avvocato, colui che – come suggerisce il termine latino ad vocatus – è “chiamato presso” di noi per proteggerci e tutelarci. Proteggere il credente dal mondo nel processo da esso intentato contro di lui, ma forse soprattutto difenderlo da sé stesso, dall’egocentrismo e dall’autoreferenzialità che tendono a occupare tutto lo spazio interiore, impedendo così a Dio di dimorare in noi. È un movimento di interiorizzazione quello a cui ci invita lo Spirito, affinché impariamo a prestare attenzione alla sua presenza in noi; nello stesso tempo egli ci sollecita a uscire da noi stessi, aiutandoci ad attualizzare gli insegnamenti di Gesù. Ed è proprio il potere di questa forza travolgente quanto ci viene descritto nella prima lettura tratta dagli Atti degli Apostoli. La Gerusalemme in cui i discepoli sono radunati è il rovesciamento di quanto è avvenuto nel momento della costruzione della torre di Babele, simbolo di dispersione e divisione; qui, al contrario, gli apostoli incominciano a parlare lingue sconosciute, provocando stupore e perplessità. E’ indubbiamente il segno di una ritrovata comunione tra le genti questa riacquistata capacità di superare ogni barriera linguistica per poter così annunciare a tutti le opere di Dio, ma è anche manifestazione di quella spinta a uscire da sé stessi che lo Spirito promuove nel cuore dell’uomo; anche oggi, infatti, egli ci invita a parlare la lingua degli altri nell’accoglienza della diversità, nell’impegno a creare relazioni profonde e trasparenti, in cui tutti possiamo riconoscerci fratelli e figli di quel Dio a cui ci è dato di rivolgerci con il dolce nome di “Abbà, Padre”.