IV domenica di Pasqua

A cura della Fraternità della Trasfigurazione
Il brano odierno è inserito in un contesto alquanto drammatico. Gesù cammina nel tempio di Gerusalemme; è il giorno della festa della Dedicazione e i Giudei gli si fanno intorno, quasi lo accerchiano come dei nemici, per presentargli una richiesta: “Se tu sei il Cristo, dillo apertamente”. L’evangelista nota che era inverno, quasi a evidenziare l’atmosfera gelida creata dall’ostilità degli oppositori del Signore. Questi risponde evidenziando la loro mancanza di fede malgrado la testimonianza delle sue opere; per tale motivo afferma che essi non possono considerarsi come appartenenti al suo gregge. A questo punto Gesù inizia a parlare invece delle sue pecore e della relazione instauratasi con loro, un rapporto che le rende sue e crea un’appartenenza non basata su di una proprietà bensì su di un legame profondo. Egli, infatti, le conosce, vive con loro un’intimità così intensa da richiamare – come suggerisce il verbo “conoscere” in ebraico – il rapporto dello sposo con la sua sposa. Da parte loro le pecore ascoltano la sua voce, quindi non sono attente unicamente a quanto egli dice, ma soprattutto alla sua persona; la voce è, infatti, una delle dimensioni dell’essere umano che meglio permette di riconoscerlo e individuare l’unicità dell’altro. È, infatti, sentendosi chiamare per nome che Maddalena riconobbe il Risorto (cf Gv 20, 16), proprio come il cuore della sposa del Cantico dei Cantici sussultò al suono della voce del suo Diletto (cf Ct 2,8). L’immagine della pecora non deve tuttavia trarre in inganno; qui Gesù, che ha indubbiamente presenti i racconti profetici in cui si narra del pastore e del suo gregge, non intende mettere in risalto la mansuetudine e la docilità di questi animali; ci si potrebbe perfino domandare se in un contesto come il nostro, dove cani e gatti sono considerati come membri della famiglia, userebbe ancora lo stesso simbolo. Ai suoi tempi, però, questo era l’esempio che meglio di tutti poteva suggerire il legame profondo tra l’uomo e l’animale, considerato da solo o in gruppo; un legame che riconosceva l’unicità di ogni singolo membro attraverso l’attribuzione di un nome (cf Gv 10,3) e la leadership del pastore da cui le pecore si lasciano guidare. Attraverso questo linguaggio simbolico Gesù descrive il rapporto di confidenza e familiarità che intercorre tra lui e i suoi discepoli; bombardati da mille stimoli e soprattutto da continui rumori assordanti, essi sanno identificare la sua voce e si lasciano orientare dalla sua parola che li guida nel percorso della vita: una vita capace di trascendere gli orizzonti limitati della nostra esistenza, perché già fin da ora trasfigurata dalla gioia e dalla luce che promanano dalla comunione con lui. A tale dono si accompagna una promessa: “nessuno le strapperà dalla mia mano”. I bambini si sentono protetti quando camminano mano nella mano dei genitori, così è del discepolo che si sa custodito non solo da Gesù, ma anche dal Padre. Ed è mettendo in risalto la profondità e l’intensità della comunione presente tra di loro che si conclude il Vangelo di oggi. Il discepolo può essere così rincuorato: la certezza che lo fa sentire in mani sicure si fonda, infatti, sul loro reciproco amore che si riversa su ogni creatura e ha origine in quel legame dove i Due non si confondono e tuttavia vivono della stessa vita.