III domenica di Pasqua

A cura della Fraternità della Trasfigurazione
La sera di Pasqua Gesù appare ai discepoli e otto giorni dopo si manifesta anche a Tommaso. I suoi sono ormai consapevoli dell’avvenuta risurrezione, ma nel brano di vangelo odierno li ritroviamo in una situazione molto simile a quella della prima chiamata quale l’ha descritta l’evangelista Luca (cf Lc 5,1ss). Non è forse cambiato nulla oppure la somiglianza tra le due scene mette in risalto la necessità, comune a ogni essere umano, di un tempo per interiorizzare il mistero e permettere allo Spirito Santo di trasformarci il cuore rendendoci veramente credenti? La notte in cui si trova immersa la piccola comunità dei discepoli riflette il buio che li abita, l’alternarsi di fiducia e paura, il non aver ancora dato continuità al sorprendente annuncio della Pasqua. Così ci ritroviamo spesso anche noi, credenti che oscillano tra la speranza e il dubbio e stentano a fidarsi della capacità del Signore di trasformare e rinnovare completamente la nostra vita. Ed ecco comparire all’alba Colui che porta con sé la luce o, meglio, Colui che è “la luce del mondo” (Gv 8,12). Egli pone loro una domanda capace di diradare le tenebre del loro cuore ancora inquieto, un interrogativo non tanto interessato a ricevere informazioni in merito al risultato della pesca quanto intenzionato a far prendere loro coscienza della situazione attuale. Proprio quegli stessi uomini che all’inizio della loro vocazione, basandosi unicamente sulla parola di Gesù, avevano preso una quantità così enorme di pesci che le reti quasi si rompevano (cf Lc 5,6), ora non possono che rispondere allo sconosciuto con un laconico, categorico, e forse anche un po’ insofferente, “No”, che li obbliga ad ammettere il loro insuccesso. Eppure, è proprio l’interrogativo posto dal Signore, quella domanda che, come scrive un grande esegeta, scava in loro una mancanza, l’occasione per lasciar penetrare nel buio della loro notte la luce dell’aurora. Quando abbandoniamo chiusure e resistenze, la mancanza, l’assenza aprono il cuore all’inatteso; ed ecco che i discepoli, pur non avendo ancora riconosciuto il Signore, si affidano alle parole dello sconosciuto e gettano la rete dal lato destro della barca. Un gesto di estrema fiducia da parte di quei pescatori dalla lunga esperienza, che conoscevano quel lembo di mare “come le loro tasche”. Il discepolo amato, colui che aveva creduto alla risurrezione di Gesù davanti al vuoto del sepolcro ora, di fronte alla grande quantità di pesce, ne riconosce la presenza. Egli lo aveva sentito affermare: “Senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5); quell’abbondanza, quindi, non può che essere il segno del suo agire attraverso di loro. Se il discepolo amato, che si è abituato a “rimanere” con il Signore, ora lo identifica immediatamente, Pietro ha bisogno di sentirlo indicare dalla voce di un altro e di percorrere un breve tragitto per raggiungerlo. L’irruenza con cui si getta in acqua rivela, tuttavia, l’intensità del suo amore. A terra l’apostolo trova il Risorto e, accanto a lui, un fuoco di brace su cui stanno arrostendo del pane e del pesce; proprio lui, che aveva rinnegato il Signore mentre cercava di scaldarsi intorno a un fuoco (cf Gv 18,18), ora è accolto da un altro Fuoco bruciante d’amore. Con lui, anche noi possiamo sperimentare il mistero della Pasqua come misericordia, perdono, rigenerazione e amore “fino alla fine”.