II Domenica dopo Natale

 
 

commento a cura di Luciano Condina

La magniloquenza del prologo del Vangelo di Giovanni incute sempre un certo timore reverenziale e un senso di totale inadeguatezza nel tentativo di balbettare qualche briciolo di sapienza dall’inesauribile ricchezza in esso contenuta.  Mi soffermo sulla parte situata esattamente al centro, che quindi possiamo considerare il cuore: «Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio» (Gv 1,11-12).

Nulla di ciò che troviamo nella Scrittura è casuale, e il fatto che nel cuore di questa lettura veniamo citati noi, potenziali figli di Dio, ci rammenta che la scrittura è a servizio dei nostri passi (Sal 119,105) e che al centro del cuore di Dio ci siamo noi.

«Venne fra i suoi»: la Luce, quella luce che la nostra interiorità sogna e intimamente sa di esserne parte, con l’identità di Verbo di Dio, ossia di parola che salva, parola che, se radicata nel cuore dell’uomo, è in grado di trasformare l’esistenza in grandioso capolavoro, quella luce è scesa fra i suoi. Il Verbo di Dio ci ritiene suoi, perché gli apparteniamo e perché Egli ci appartiene, legati da una parentela d’amore. È Lui che scende per raggiungerci nel punto più basso in cui ci troviamo: è curioso che il battesimo di Gesù avvenga nel punto più depresso della terra, oltre 400 metri al di sotto del livello del mare. È l’unico Dio, nel pantheon delle divinità dell’uomo, che non deve essere raggiunto, bensì è Lui che raggiunge noi.

«E i suoi non l’hanno accolto»: com’è possibile? Che la Vita, «il più bello tra i figli dell’uomo», la Luce, il Verbo di Dio, l’Amore fattosi carne e volto non sia stato accolto?

Non è difficile capire il perché. Tutti noi abbiamo nell’immaginario un’idea di Dio legata alla potenza, alla grandezza, alla giustizia che dovrà fare… ma questa è la descrizione di Zeus, che scaglia fulmini e saette; persino Giovanni Battista era disorientato, arrivando a chiedersi se era lui il messia o dovevano aspettarne un altro (Mt 11,3).

No, il Dio vero non si presenta con questa immagine. Si mostra povero, collocato in una mangiatoia appena nato, e inchiodato a una croce al termine della sua vita terrena. I suoi non l’hanno accolto perché lo cercavano dove non era e non lo riconoscevano dove era, essendo Egli dove nessuno se lo aspettava. Chi ha una relazione con Dio percepisce il suo profumo dove sembra non essere presente: «Ero carcerato, affamato, assetato, forestiero, nudo, malato…» (cfr Mt 25,35-36); è in queste categorie che il Verbo è presente; e se non si ha dimestichezza con Dio, non si riesce a vederne la presenza, non si riesce a percepirne il profumo; dunque scatta la repulsione. Emblematica la storia di san Francesco con i lebbrosi nei quali, dopo la conversione, egli ha visto il Verbo incarnatosi proprio lì. E li ha abbracciati. Se ci pensiamo, osservando un malato immobile in un letto, sofferente, solo, magari abbandonato, stiamo osservando quanto di più simile a Gesù possa esserci.

La mangiatoia in cui Gesù viene posto appena nato, è un posto lurido, umido, puzzolente, certamente inospitale; ebbene solo chi vegliava – i pastori – ebbero gli occhi aperti per riconoscere ciò che avveniva. Ed è proprio lì che Dio permette che venga posto Gesù bambino. Fuor di metafora, ogni uomo è una mangiatoia che cammina, un’interiorità oscura, povera e malsana, che però può ospitare – perché Dio così ha voluto – Dio stesso, ricevendo così il potere di diventare suoi figli.

Basta accoglierlo.