II Domenica di Pasqua Gv 20,19-31

 
 

Facciamoci portatori di Spirito santo –

a cura di Don Luciano Condina –

Questa domenica è detta in albis per l’usanza dei neobattezzati della Chiesa antica di deporre le candide vesti sulla tomba di un martire; nel 2001, Giovanni Paolo II decise di dedicarla alla Divina Misericordia. Il nucleo fondamentale del vangelo è l’effusione dello Spirito Santo, tramite un soffio, da parte di Gesù agli apostoli. Tale gesto, vero atto creativo di vita nuova generata in loro, ha implicazioni enormi: «A coloro a cui perdonerete i peccati saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».(Gv 20,23).

Cos’è il perdono dei peccati? O meglio: cosa genera il perdono di Dio in chi lo riceve? Per risolvere quesiti complessi spesso è necessario porre le domande giuste. Chiariamo subito una cosa: il concetto di perdono come “concessione di grazia da parte di una lesa maestà” è puramente umano e non attribuibile alla psicologia divina. Gli uomini perdonano in questo modo, non Dio.

E ancora: una spiegazione superficiale di questo brano evangelico indicherebbe il possesso del discernimento sul perdono, sull’atto di perdonare o meno, come un discrimine che ci affida il decidere chi perdonare e chi no. Sarebbe un po’ preoccupante se fosse semplicemente così, pur non escludendo tale dimensione.

Per comprendere meglio dobbiamo approfondire l’antropologia cristiana che descrive l’uomo composto da corpo, anima e spirito: ognuna di queste parti può essere afflitta da malattie congeniali; quelle del corpo sono curate dai medici; quelle dell’anima, riguardanti la sfera della psyké, dagli psicologi, ma anche dall’amore umano; per quelle dello spirito bisogna cambiare piano esistenziale. Nella vita dell’uomo esistono malattie dello spirito – le più gravi – dovute a episodi ed errori dolorosissimi, fautori di conseguenze sovente unidirezionali, drammatiche, irreparabili. Queste gravi sofferenze spesso portano a non perdonare, oppure a non perdonarsi o a non ritenersi degni di perdono. Giuda Iscariota è l’esempio più eclatante di tale categoria. Chi sperimenta la guarigione dalle forme di malessere interiore descrive la propria sensazione intima, nel più profondo del cuore, di un amore totale, avvolgente, simile a un fuoco, veramente percepito come di origine soprannaturale, per nulla associato ad alcun merito personale. È l’esperienza intima del sentirsi amati da Dio, nel più profondo di se stessi. E ciò non è appannaggio di medici e psicologi.

L’unico medico in grado di compiere questa guarigione è lo Spirito Santo donato da Gesù agli apostoli, i quali possono trasmetterlo con la testimonianza di vita, con l’annuncio della Parola e con i Sacramenti: in primis quello della riconciliazione, nel quale il pentimento è la porta interiore che permette di accogliere lo Spirito e il dono della pace.

Il fatto che il peccato contro lo Spirito Santo non venga perdonato non significa che la terza persona della Trinità sia più suscettibile delle altre due. Se lo Spirito Santo è l’unico a possedere la facoltà di guarire i cuori, ossia di perdonare, rifiutarlo significa rifiutare Colui che ci fa sperimentare il perdono, ossia l’amore di Dio nel profondo dell’essere. Ecco perché questo peccato non può essere perdonato: perché è il perdono stesso ad essere rifiutato da chi dovrebbe riceverlo.

Lo Spirito Santo è donato alla Chiesa, e alla Chiesa soltanto: ecco allora che assume significati più ampi l’affermazione di Gv 20,23, così parafrasabile: chi non riceverà questo Spirito attraverso di voi non vivrà l’esperienza intima dell’amore di Dio e dunque del perdono. Gesù non sta dando un potere di perdono bensì sta dando la responsabilità di essere testimoni dispensatori di Spirito Santo, il quale fa vivere il perdono: Gesù sta trasmettendo un ministero.

«Ecco, io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,5), e ciò lo fa tramite la Chiesa. E ciò viene fatto per mezzo dello Spirito Santo donato alla Chiesa.