Domenica delle Palme Mt 26,14-27,66

 
 

Cristo ci redime con la sua umanità –

a cura di Don Luciano Condina –

«Elì, Elì, lema sabactàni?» (Mt 27,45) è il grido scandaloso di Gesù che proclameremo a porte chiuse – ma a cuori aperti – nella passione di nostro Signore secondo Matteo, in questa domenica delle Palme; rispecchia la situazione di tanti sofferenti in un tempo, come quello attuale, di malattia convalescenza, reclusione e isolamento forzato: l’essere condotti dove non si vuole, perfino a morire, nella solitudine.

In una piazza san Pietro deserta e apocalittica, con una scenografia già diventata storia dell’umanità e della Chiesa, papa Francesco ha accostato la nostra situazione a quella dei discepoli terrorizzati nella tempesta: se lì è Gesù che sembra estraniarsi, ora, nella sua crocifissione, è Dio che pare estraniarsi. Questo è uno di quei passi imbarazzanti che potrebbe gettare ombra sulla divinità di Gesù, che parrebbe proprio abbandonato da Dio.

Ebbene, Gesù ha vissuto in tutto e per tutto la condizione umana al pari di noi, tranne che per una sola cosa: il peccato e le conseguenze che esso comporta. La più pericolosa è una sola: la separazione da Dio. Gesù visse ogni momento della sua esistenza in comunione perfetta con il Padre; senza perdere un istante, al compiere dei 12 anni – la maggiore età per quel tempo – durante la presentazione al tempio, dichiarò al mondo quale fosse la sua unica priorità: «fare la volontà del Padre mio» (Lc 2,49). C’è un solo momento della sua vita in cui quel rapporto simbiotico viene interrotto, ed è proprio il momento in cui Gesù grida disperato l’abbandono del Padre: è la prima volta che Egli sperimenta la lontananza da Lui. È quello il preciso istante in cui Cristo è pienamente l’agnello di Dio che prende su di sé il peccato del mondo sperimentandone totalmente la conseguenza: la separazione dal Padre. Questa è di gran lunga la sofferenza peggiore che Gesù abbia sperimentato durante la sua passione.

Spesso, riguardo alle sofferenze di Gesù, pensiamo esclusivamente a quelle fisiche, ma non dobbiamo dimenticare che l’uomo è composto di corpo, anima e spirito. Se i suoi dolori fisici sono provocati dalle innumerevoli ferite inflitte alla carne, quelli dell’anima sono causati dall’abbandono, dal tradimento, dalla sensazione di fallimento; ma la sofferenza maggiore è quella dello spirito, che comporta lo sperimentare l’abbandono di Dio: questo è l’inferno, è sperimentare che l’Amato, l’Amore perfetto, è perduto.

Per avere una pallida – pallidissima – idea di cosa possa aver vissuto Gesù in quel momento, proviamo a immaginare una madre che perde in mezzo alla folla un figlio di tre anni: cercandolo e vedendolo, ogni minuto che passa cresce in lei l’angoscia, fino a concludere che il bimbo è scomparso. E pensiamo al fanciullo che si accorge di essersi perso o crede di essere stato abbandonato. Questo il tipo di sofferenza che Gesù esprime in quel grido disperato. Ma, paradossalmente, proprio con quelle parole ci conferma che Egli è il vero Messia, il vero Redentore: se Gesù non fosse passato attraverso l’esperienza della separazione da Dio, la redenzione sarebbe stata incompleta. Ciò va specificato per chiarire che quel grido non è stato un momento di debolezza, anzi: è il momento cruciale dell’opera di redenzione.

Ancora, il grido è una delle forme di preghiera più citate nella Bibbia: infatti sono centinaia i versetti al riguardo. Cito solo Giobbe a cui Dio risponde solo dopo che egli ha gridato oppure il salmo 114, che esordisce con la celebre dichiarazione: «Amo il Signore perché ascolta il grido della mia preghiera». Nel Vangelo leggiamo che Gesù «gridò a gran voce ed emise lo spirito» (Mt 27,50): il suo ultimo atto di vita terrena è stato un grido, la più potente preghiera.
L’atto più grande mai compiuto da un uomo – la salvezza del mondo – Gesù lo concretizza nella condizione di impotenza più totale: solo, abbandonato, inchiodato. Nulla è impossibile a Dio. A Lui solo affidiamoci oggi perché, dopo la passione, segue la Pasqua.