curiosare in Dio

Nella lettera di San Giacomo troviamo un elevatissimo picco teologico: Ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre, creatore della luce: presso di lui non c’è variazione né ombra di cambiamento (Gc 1,17).

Giacomo dice che il Padre è creatore della luce. Lo sappiamo dalla sua prima giornata lavorativa: «E Dio disse: “Sia la luce!”, e la luce fu» (Gen 1,3). Che razza di luce ha creato Dio il primo giorno? La luce del sole? No, perché il sole è stato installato al suo posto il quarto giorno (Gen 1,14-19), addirittura dopo la vegetazione. Tantomeno ha creato la luce dell’Enel. Probabilmente l’autore della Genesi – e ancor più il nostro Giacomo – ha in mente una luce, per così dire, pre-dantesca ossia una «luce intellettual piena d’amore» (DANTE, Paradiso xxx 40). Se questa luce è intellettuale, significa che Dio ha creato per prima cosa il comprendonio? Impossibile, perché non si può creare il comprendonio senza avere già il comprendonio. Non indaghiamo troppo: forse si vuole dire che la creazione non è stata combinata a casaccio ma secondo un progetto ben preciso, e se osserviamo bene come funziona, pare proprio che sia così. Questa luce dunque potrebbe essere la sapienza divina, Spirito aleggiante sulle acque (cfr Gen 1,2), che «procede dal Padre e dal Figlio» (Credo della Messa), definita da Giacomo in termini edulcorati: «La sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera» (Gc 3,17). Una sapienza dunque che si mescola con l’amore, dal quale concettualmente è difficile distinguerla.

Peraltro Giovanni nella sua prima lettera per ben due volte dice che «Dio è amore» (1 Gv 4,8.16). E questa miscela fra sapienza e amore è fiutata anche da Dante, quando parla di «luce intellettual piena d’amore».

Se Dio è siffatto – e lo è – da Lui non può che venire «ogni buon regalo e ogni dono perfetto». Il termine “regalo” (in greco dòsis) mi sembra traduzione un po’ maldestra, troppo da festa del compleanno. Avrei preferito il più ricercato “elargizione”, ove parimenti è implicita la gratuità. Lasciamo perdere queste frivolezze linguistiche e chiediamoci quali sono questi meravigliosi doni di Dio. La salute? Il bel tempo? La pace? Il lavoro? Magari anche tutto questo e altro simile. Ma è la nostra solita visione rasoterra. Perché non puntare più in alto pensando ai sacramenti? Vengono da Dio e sono appunto buoni e perfetti.

Apriamo una parentesi inquietante: che uso facciamo dei sacramenti? Li riceviamo? In che modo li riceviamo? Li facciamo fruttare o li sprechiamo? Soprattutto l’eucaristia: la pensiamo come premio ai buoni o come aiuto ai meno buoni? Se ci mettiamo nella prima prospettiva nessuno è degno di fare la comunione perché fra gli umani non esiste il “buono” assoluto, qualifica che compete solo a Dio (cfr Mc 10,18). Se la pensiamo come aiuto ai meno buoni, le cose cambiano: bastano le condizioni essenziali seriamente praticate, ossia “essere in grazia di Dio e sapere e pensare a Chi si va a ricevere” (Catechismo della Chiesa Cattolica. Compendio n. 291).

Giacomo nel passo di partenza ci stimola a curiosare in Dio in se stesso, e non in rapporto a noi. E’ uno spunto interessante, perché se Dio è pensato in rapporto a noi, lo pensiamo con qualche tornaconto. Se invece lo pensiamo in se stesso almeno fin dove ce la facciamo, ci mettiamo in quell’atteggiamento religioso che si chiama contemplazione.

Sant’Agostino, che di queste faccende s’intendeva, dice che la contemplazione è il modo tipico di vedere di colui che ama (contemplatio visio amantis est). Del resto, se Dio è amore non può che essere amato: amato nel suo “essere” prima ancora che nel suo “agire in nostro favore”. E’ un po’ quello che diciamo alla Messa nelle parole «ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa» (inno Gloria a Dio nell’alto dei cieli). Potremmo fregarcene perché la gloria immensa è affar Suo; invece no, il Suo essere non può non essere benedetto, ringraziato, adorato e amato per la sua straordinaria superiorità. Dio resterebbe bellezza e bontà assoluta anche se per ragioni Sue non ci desse una mano.

Giacomo su quale aspetto di Dio ci sollecita? Sulla sua assoluta immobilità: «presso di Lui non c’è variazione né ombra di cambiamento». Questo è ben strano, quasi inconcepibile, per noi che siamo in moto perpetuo, sottoposti a continui cambiamenti, sia individuali sia comunitari. La storia dell’uomo è vicenda di cambiamenti, ora in meglio ora in peggio. Lo stesso capita nella nostra vita individuale. L’invecchiamento fa parte del nostro “essere sotto il cielo” (cfr Qoelet 1,13), il nostro modo pensare cambia secondo i ritmi di crescita, secondo l’istruzione e le esperienze di vita. Muta pure il nostro aspetto, tanto che dopo dieci anni dobbiamo rifare la carta d’identità perché siamo irriconoscibili. In Dio invece nulla di tutto ciò.

E’ sempre impassibilmente uguale a se stesso. Se vuole essere Dio, è “obbligato” a essere così: il cambiamento infatti presuppone imperfezione, perché è sempre tentativo, più o meno riuscito, verso il meglio. Ma Chi è perfezione assoluta, che bisogno ha di cambiare? Potrebbe solo cambiare in peggio, ma è mica scemo! Perché dovrebbe degradarsi? Inoltre il cambiamento presuppone il tempo, essendo un passaggio da un prima a un dopo: ma Chi è eterno non possiede né prima né dopo. Siamo al ribaltamento della condizione umana (forse ho già scritto di questo). Il presente per noi in pratica non esiste: è solo il punto di snodo fra passato e futuro, è attimo fuggente e inafferrabile. In Dio invece non esistono passato e futuro ma solo eterno presente.

Siamo grati a san Giacomo che ci suggerisce queste cose, ma ci saremmo arrivati anche da soli, se fossimo più avvezzi a queste meditazioni. Il pensiero medievale ha congegnato tutto questo castello su Dio, a prescindere dalla Rivelazione. Si pone però un problema. Un Dio così immobile, inalterabile, imperturbabile, algido, surgelato, inamidato, impassibile, non si annoia? A questo punto ci dà una mano la Rivelazione. Non si annoia, perché è solo ma non solitario. Dio è vita (cfr Gv 1,4) e la vita è impensabile in solitudine assoluta, ma esige scambio e incontro: ecco allora l’articolazione trinitaria del Dio unico e semplicissimo, che sussiste in Padre e Figlio e Spirito Santo in una circolazione di amore eterna, sublime, suprema, sovrana, grandiosa, immensa, sconfinata, eppure intimissima a noi se ci crediamo e l’accogliamo, mettendo da parte noi stessi e le nostre grane (cfr Gv 14,23-26).

Quando si è intossicati ci si deve disintossicare. Siamo intossicati di noi stessi e da noi stessi. I nostri problemi ci assillano e ci rattristano. Non voglio essere semplicista, stiamo vivendo momenti difficili, con problemi gravi e dall’esito incerto. E forse è proprio questo diffuso malessere epocale che ci rende tanto disumani e feroci. Ci fa bene allontanarci un pochino da noi stessi per librarci in un’atmosfera più respirabile, ossigenando le nostre meningi con pensieri meno spasmodici, più elevati e tranquilli. Anche la Chiesa mi sembra eccessivamente preoccupata di se stessa e del mondo. Se fossimo capaci di immergerci in Dio almeno due volte al giorno vivremmo tutti meglio. Sarebbe anche un ottimo allenamento: tanto non abbiamo quaggiù cittadinanza permanente (cfr Ebr 13,14)…