3ª domenica di Quaresima Lc 13,1-9

 
 

La sofferenza via di conversione –

a cura di Don Luciano Condina –

Nel vangelo di questa domenica Gesù è intento a misurarsi con gli assurdi della cronaca: gli parlano di fatti terribili relativi ai galilei il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme con quello dei loro sacrifici. È una cosa riprovevole per chiunque, ma per un ebreo ancora di più poiché il sangue rappresenta la vita. Gesù stesso ricorda un altro evento: il crollo della torre di Siloe, che aveva ucciso 18 persone. Un fatto di cronaca nera e una fatalità foriera di disgrazia.

Dobbiamo rimarcare una cosa molto strana detta da Gesù: «Credete che quei galilei fossero più peccatori di tutti i galilei per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite perirete tutti allo stesso modo» (Lc. 13,2-3). La medesima cosa afferma in relazione ai morti sotto la torre di Siloe, cioè mostra un collegamento che può portare alla conversione pensando a questi fatti terrificanti.

Il senso di queste parole non è che fatti tremendi come quelli citati succederanno a chi non si converte: resterebbero in vita poche persone. Pone invece gli ascoltatori di fronte a una chiamata. Gli eventi citati da Gesù sono una chiamata alla missione: non è importante chiedersi chi sia il colpevole, se chi muore meriti questa fine o esecrare il fatto in sé. C’è una miseria, c’è una sofferenza e il dolore del prossimo è una vocazione. Le emergenze e le necessità altrui sono la nostra chiamata.

Potremmo finalizzare questo tempo di quaresima ad un perfezionismo sterile e spirituale, oppure iniziare dall’incontro con l’Eterno nel roveto ardente – narrato nella prima lettura – di fronte allo straordinario di Dio; rivedere tutto il dolore che è entrato nel nostro cuore, o quello di cui siamo a conoscenza, per convertirci. «Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo» (v. 3), cioè senza senso, senza trovare il quid del reale, cioè senza fare un salto nell’amore. Perché il dolore non è la chiamata a una sterile recriminazione, ma una chiamata all’amore. Nella nostra vita ci possono essere sofferenze profonde e le persone possono essere vessate da fatti dolorosissimi. Queste cose restano lì, pulsanti e irrisolte finché non diventano missione, finché non diventano chiamata. Così uno scopre che il proprio dolore e quello altrui sono in funzione di un salto di qualità: è una chiamata a uscire dal luogo in cui ci si trova per andare a servire. Pensiamo al grido di aiuto che S. Teresa di Calcutta si sente rivolgere da un povero: «Ho sete!» e capisce Dio in quella invocazione; tante volte la storia della santità parte da un’emergenza finalmente individuata come priorità, portatrice di qualcosa di grande.

Segue poi la parabola del fico sterile. Cosa c’è di più inutile di un albero da frutto che non ne produce? Il fico è una pianta fondamentalmente selvatica e ogni cura rappresenta una premura quasi superflua. Questa cura indica la grande misericordia del fattore che si occupa dell’albero. È Cristo che viene ad offrirci un’altra possibilità, a concederci un altro anno, un altro tempo. Ma se uno comprende cosa la vita gli stia chiedendo, rischia un taglio, una perdita, uno spreco. Si può sprecare la vita? Lo facciamo quando non ci lasciamo cambiare dagli eventi, soprattutto accusando gli altri; succede un fatto e si cerca spesso con chi prendersela: se stessi o altri.

Quando succede un fatto molto serio, volgiamoci a Dio, entriamo in relazione con Lui, lasciamoci cambiare; consentiamogli di far emergere il meglio di noi proprio da quell’evento.