30ª domenica tempo ordinario Lc 18,9-14

 
 

– Riconosciamo di essere peccatori –

a cura di Mons. Sergio Salvini –

La parabola del fariseo e del pubblicano è presente solo nel Vangelo di Luca: scrittore della misericordia di Cristo, come lo definì Dante Alighieri.

Ecco i due protagonisti. Il termine “fariseo” significa “separato”: separato dal resto della gente comune. Ciò che lo separava era la sua purezza legale e culturale. Un’osservanza più che scrupolosa. Luca scrive: «Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé». Quel «tra sé», letteralmente, dovremmo tradurlo «verso se stesso». La sua lode non era rivolta a Dio, ma rivolta a se stesso: si compiaceva con se stesso. Più che osservare la legge, faceva credere di osservarla.

Il termine «pubblicano» deriva da publicus e significa «cosa pubblica»: i «pubblicani» erano i dazieri, gli esattori delle tasse, che avevano l’appalto per la loro riscossione; davano allo Stato ciò che era stabilito per legge, ma la legge stessa permetteva loro di aumentare le tariffe per guadagnare di più; si può dire che fossero dei “ladri autorizzati”. I giudei li odiavano perché collaboravano con l’impero dominante. Non erano accolti nelle case, né li avvicinavano o salutavano. Questo è il quadro.

Gesù non ha voluto tanto contrapporre due categorie, i farisei e i pubblicani, ma due atteggiamenti diversi che non necessariamente si possono classificare. Ha voluto insegnarci che l’atteggiamento del fariseo è sempre attuale, ed è in ognuno di noi, indipendentemente dalla religione, dalla razza, dalla cultura, dalla nostra appartenenza sociale. Il difetto farisaico fa parte di ogni religione, ed è per questo che Gesù non ha voluto fondare una nuova religione. Si dice che la parabola in realtà sia tutta centrata sulla preghiera, ma, ascoltare la preghiera di un uomo è tastare il polso dell’immagine di Dio che si porta dentro.

C’è una parolina che cambia tutto nella preghiera del pubblicano e la rende vera: «tu». Parola cardine del mondo: «Signore, tu abbi pietà». E mentre il fariseo costruisce la sua religione attorno a quello che lui fa, il pubblicano la costruisce attorno a quello che Dio fa. Pregare è rimettere Dio al centro: il mondo è salvo perché Dio ama, non perché io amo: un io e un tu che entrano in relazione; qualcosa va e viene tra il fondo del cuore e il fondo del cielo.

Diceva un padre del deserto: chi riconosce i propri peccati è più grande di chi risuscita i morti; e chi sa confessare i propri peccati al Signore e ai fratelli è più grande di chi fa miracoli nel servire gli altri.

Sì, il vero miracolo, l’intelligenza delle intelligenze, è riconoscere e confessare i propri peccati: siamo noi i pubblicani! Allora forse comprenderemo che è una povera e inutile fatica quella di nascondere o mascherare il proprio peccato, magari sforzandosi, anche in buona fede e con grande impegno, di edificare il proprio sepolcro imbiancato.

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Nella tua tenerezza, o Dio, ascolta la nostra preghiera e da’ pace a tutti coloro che ti confessano la loro miseria: quando la nostra coscienza ci accusa di peccato, la tua misericordia, più grande della nostra coscienza, ci assicuri il tuo perdono in Gesù Cristo tuo Figlio, nostro Signore e Salvatore.