29ª domenica tempo ordinario Mt 22,15-21

 
 

– A cura della Clarisse di Santa Chiara in S.Maria di Roasio –

– La fedeltà a Dio è prioritaria –

Nel brano evangelico di questa domenica si rivela con evidenza la catechesi di Matteo, specialista dei problemi interni ed esterni della sua comunità giudeo-cristiana. Dopo il trittico delle “parabole di rottura”, egli riprende l’ordine marciano riportando le altre quattro “controversie”, che formano un blocco abbastanza unitario. Dopo i gran sacerdoti e gli anziani (21,23), ora subentrano altri interlocutori: i “discepoli” dei farisei e gli “erodiani”, per tendere un tranello a Gesù e farlo arrestare.

Al tempo dei fatti narrati, in Palestina il tributo personale imposto dall’ imperatore romano Tiberio, sul trono dal 14 d.C., era una moneta d’argento con la sua effigie e la scritta: Ti. Caesar, Divi Aug. F. Aug, cioè «Tiberio Cesare, figlio del divino Augusto, Augusto»; un tacito riconoscimento del dominio straniero, che sottintendeva la rinuncia implicita ad ogni speranza messianica e costituiva un serio problema di coscienza che determinò l’origine di movimenti rivoluzionari, contrari al versamento del tributo. In quel contesto, i farisei prendono l’iniziativa per tendere un tranello a Gesù, mandando da lui i loro “discepoli” con gli erodiani, cioè i fautori dei discendenti di Erode. E la domanda che rivolgono a Gesù è molto insidiosa: se avesse approvato il tributo a Cesare, si sarebbe alienato la simpatia del popolo; se avesse risposto negativamente, gli erodiani l’avrebbero catturato e denunziato come ribelle.
Gesù evita la trappola con abilità, conformandosi alla prassi dei dibattiti nelle scuole giudaiche: risponde infatti con una controdomanda, trasferendo il problema dal livello religioso e dottrinale a quello pratico. Non si pronuncia sulla liceità della dominazione straniera in Palestina, ma sottolinea il primato della fedeltà a Dio, che in caso di conflitto deve prevalere sull’autorità dell’imperatore. Gesù conosce la “malvagità” dei suoi interlocutori e li smaschera immediatamente, accusandoli di ipocrisia, cioè di simulazione, e svelando la loro intenzione malvagia.

Dal racconto emerge che Gesù non aveva denaro con sé; invece i suoi oppositori non si erano fatti scrupolo di entrare nel recinto del tempio, dove avvenne il confronto, portando monete con l’effigie dell’imperatore, cosa severamente proibita dalla legge (Es 20,4). I giudei, infatti, usavano la moneta romana con notevoli vantaggi economici; perciò consideravano giusto accettare anche gli obblighi civili del potere straniero, purché non pregiudicassero i doveri religiosi. Gesù preferisce non dare una risposta diretta, ma distingue la sfera politica da quella religiosa, che non si contrappongono necessariamente tra di loro. Egli lascia a ciascuno la facoltà di decidere in coscienza riguardo al tributo, ma ribadisce la priorità della fedeltà a Dio, unico vero Salvatore, come gli israeliti professavano quotidianamente con la recita al mattino e alla sera della preghiera dello Shemà (Dt 6, 4-5). Gesù elude una domanda insidiosa, impartendo però un insegnamento fondamentale circa il primato assoluto di Dio su ogni autorità terrena.

Se è vero che «rendere a Cesare quel che appartiene a Cesare» suona anche per la nostra società come un richiamo forte alla responsabilità della giustizia sociale, tuttavia è importante ricordare che «La “città dell’uomo» non è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri, ma ancor più e ancor prima da relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione. La carità manifesta sempre anche nelle relazioni umane l’amore di Dio, essa dà valore teologale e salvifico a ogni impegno di giustizia nel mondo» (Benedetto XVI , Lett. Enc. Caritas in Veritate).