14ª domenica tempo ordinario Mc 6,1-6

 
 

– a cura di Mons. Sergio Salvini –

Il vangelo ci parla della visita di Gesù a Nazareth e descrive la chiusura mentale della gente del posto, che non vuole accettarlo. Da sempre Egli nasconde una realtà soprannaturale, rivelata a coloro che «hanno occhi per vedere».

Molti affermano: «Gesù di Nazareth è un personaggio indubbiamente straordinario – come ve ne sono stati e ve ne sono ancora – ma sempre e solo un uomo come tanti». Così Lo liquidano distanziandosene. Ne apprezzano le virtù, «l’esempio», ma non coinvolge «più di tanto» (e questo può essere anche comodo).

Se si dice loro che in Gesù si nasconde Dio stesso, che in Lui, in modo unico ed irripetibile, si fa uomo per operare la trasformazione e la salvezza eterna di uomini e donne in ogni tempo e paese, essi ribattono che si tratta solo di un mito, di «un’esagerazione» promossi da gruppi di potere religioso per i propri fini.

No, risponde l’apostolo Paolo riguardo a Gesù, in sintonia con tutti gli autori del Nuovo Testamento. L’identità profonda di Cristo, prima solo “intuita” dai suoi discepoli, diventa progressivamente più chiara. Benché Egli abbia fornito numerose prove del fatto di non essere «uno fra i tanti», ma di essere, in modo unico e irripetibile, Dio con noi, quelle prove non sono utilizzabili come “inconfutabili” per persuadere qualcuno. Anche oggi, esse vengono messe sistematicamente in discussione da persone scettiche, incredule, con pregiudizi, qualunque cosa si dica loro.

Solo lo Spirito illumina. In presenza di scetticismo, incredulità e pregiudizio l’opera di Gesù non potrà che essere, anche oggi, limitata; non per questo, però, si vanifica la sua potenza, ma perché la fede e la fiducia in Lui stanno alla base di ogni “transazione”, fra noi e Lui, che voglia aver successo.

Si legge nel Vangelo: «E non vi poté operare nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi ammalati e li guarì». «Senza fede è impossibile piacergli; poiché chi si accosta a Dio deve credere che egli è, e che ricompensa tutti quelli che lo cercano» (Ebrei 11,6). Il rimprovero con cui Gesù abbandona la propria terra: «Un profeta non è disprezzato che nella sua patria…». Ci ricorda il dovere di vivere la dimensione profetica a partire dalla normalità della vita. Dove domina la logica della forza, dell’imposizione, della costrizione, la profezia deve proporre il costume della non violenza, della persuasione proprie di Gesù. Il vangelo induce più a convincere che a vincere. Fa profezia chi si sforza di vivere la gratuità evangelica.

Fa profezia chi compie scelte radicali di distacco e di povertà, che costringono a interrogarsi sul superfluo e sull’essenziale. In un mondo caratterizzato dalla caccia al privilegio e alla distinzione, dal corporativismo, è profezia accettare e promuovere l’uguaglianza tra le persone, in linea con la sostanziale dignità di tutti i figli di Dio. E se attenzione privilegiata deve esserci, questa va riservata a chi non ha titoli per farsi valere, tranne quello della propria umanità sofferente e povera.

La comunità che rifiuta il profeta, com’è successo a Nazareth, rimane impoverita di una voce che il Signore aveva mandato per la sua conversione.

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«È il profetismo “quotidiano”, intessuto di sentimenti e di gesti che rimangono nella interiorità di ogni uomo, che realmente ha un vero valore profetico, in quanto il vissuto secondo la fede e la carità diviene sorgente e alimento di una mentalità e di una prassi che fanno fiorire una “cultura” evangelica, ossia una visione e gestione della realtà secondo la luce e la forza del Vangelo»

(cfr. Paolo VI).