PENSIERI FERRAGOSTANI l’angolo di don Alberto

 
 

Nel Paradiso Dante intervista un suo illustre antenato, certo Cacciaguida, il quale gli risponde «ma non in questa moderna favella» (Par XVI 33).

Se era moderna la favella di Dante, figuriamoci la nostra! Questa precisazione dantesca ci dice che la lingua non è mai ferma, ma in continua evoluzione nelle forme grammaticali, sintattiche e nel significato delle parole. Se si può e si deve dire che l’uomo invecchia, è difficile poterlo dire della lingua, la quale si trasforma, ma non invecchia: quale motivo abbiamo per dire che l’italiano di Dante fosse più giovane del nostro?

Bastano sette\otto secoli di precedenza? Non direi. Si può dire che una lingua è morta, come lo diciamo del latino, non più parlato ma imbalsamato in cospicui residui letterari. Però s’imbalsamano i morti, non i vivi. C’è qualcosa che non torna, perché secondo le premesse dovremmo dire che una lingua muore sul colpo, il che non è: il latino si è estinto travasandosi lentamente nell’italiano e in altre lingue che si dicono neolatine.

Nell’dea di invecchiamento è implicito l’indebolimento, ma non mi pare che l’italiano attuale sia indebolito. E’ invaso da una quantità di inglesismi, ma si tratta di un benservito, perché la maggior parte delle parole inglesi sono di origine neo-latina quindi parenti dell’italiano. Andando avanti di questo passo dovremo rassegnarci alla sepoltura dei congiuntivi, ormai molto in ribasso. Ma è un funerale che non merita lacrime. Una lingua vive nell’uso che se ne fa.

Piantiamola lì con questa barbosa chiacchierata e veniamo a noi. Ci sono aggettivi di una flessibilità straordinaria, che consente loro di adattarsi a realtà alquanto differenti. Uno di questi è l’aggettivo “civile” discendente dal latino civis che vuole dire cittadino. Cittadino è l’abitante della città, e quanto ha attinenza con la stessa e con il modo di viverci si dice civile.

E siccome si presume, ma è da vedere, che il modo di vivere urbano sia migliore di quello rurale, ecco che civile diventa automaticamente sinonimo di progredito, raffinato, elegante, colto: ogni altro bene senza alcun male. L’aggettivo in questione si dilata in civiltà che è il complesso delle accennate dimensioni del vivere consociato. Ecco allora il codice civile, che regola la coesistenza; il servizio civile che si differenzia dal servizio militare; il matrimonio civile che impegna solo davanti allo Stato e non davanti alla Chiesa. Facciamo un posso più in là e si arriva alle unioni civili, oggi molto fabulate.

In che senso queste unioni si dicono civili? Per evitare un’aggettivazione più sgradevole ma in linea non la “raffinatezza” dei gay-pride? Perché solo lo Stato se le può permettere e non la Chiesa? Perché sono da intendersi come una “conquista” della civiltà? Per fortuna non si sono chiamate “unioni naturali”, probabilmente perché la natura avrebbe almeno qualcosa di ridere al riguardo.

L’Europa, storica maestra di civiltà, ha bacchettato l’Italia per non essere assurta ancora al livello di civiltà da tutelare a sufficienza quella grande conquista dei tempi moderni che sono le unioni civili! Se le unioni in questione sono aggettivate come civili, pare che civile e incivile siano diventati sinonimi! Bell’esempio di evoluzione della lingua!

Solare è ciò che ha attinenza col sole, definito da Dante «lo ministro maggior della natura» (Par X 28). Gran bella definizione! E’ lui infatti il supremo regolatore dei ritmi naturali, non privi di occasionale impazzimento come il caldo atroce che ci sta propinando quest’estate a compensazione della assai scialba estate scorsa. Ma queste vampate caloriche sono colpa dell’estate o dell’uomo? In ogni caso, bravi come siamo, non possiamo dire di non meritarci di essere un po’ rosolati. Preferisco non considerarle
allenamento al «fuoco eterno, preparato per il diavolo e i suoi angeli [e per le canaglie, nrd]», (Mt 25,41), ma almeno ambientamento alle saune del purgatorio (cfr 1 Cor 3,15), dalle quali sarà difficile stare alla larga.

Il sole clona il polivalente aggettivo “solare” che vale per il sistema, per le eclissi, per le protuberanze e per le macchie. La cute del sole non è lisca come quella della dea Venere “calliglutea” (prego sollevarmi dalla spiegazione di questa onorificenza venerea), perché presenta macchie e protuberanze. Passando al frivolo, c’è (o c’era) pure l’ambra solare: un unguento di cui si cospargeva mia sorella quando andava in spiaggia: nulla di eccezionale, lo faceva anche la “casta Susanna” (Dn 13,17). C’è pure la “solarità”, splendido sostantivo utilizzato da Montale nel sintagma “le trombe d’oro della solarità” detto del giallo dei limoni.

Oggi si usa l’aggettivo solare pure per il carattere umano, nel detto “una persona solare”. Che vuol dire? A occhio sembra che significhi carattere limpido, sereno, lieto, forse anche con una sfumatura rubiconda. E’ una sostituzione astronomica dell’aggettivo giocondo, che ci si affettava a dire di non recare scritto in fronte, nel detto “non ho mica scritto giocondo”; e ci si toccava in simultanea la fronte, quasi fosse la lavagna della “giocondità”.

Il classico giocondo, sentito come sinonimo di sempliciotto e citrullo, è stato pensionato in favore del pomposo “solare”. Mi pare che quest’ultimo si usi più per donna che per uomo, pur essendo grammaticalmente unisex. Forse questa prevalenza muliebre risale a una femmina sovrumana che appare nell’Apocalisse di Giovanni (12,1), talmente “solarizzata” da essere vestita di sole e con la luna sotto i piedi. Se così è, l’aggettivo in questione è persino un po’ presuntuoso.

In solare detto del temperamento umano sento la nota della permanenza. Non si dice infatti che è solare uno abitualmente tetro, con sprazzi solari di giovialità. Per meritarsi questa positiva nota astronomica occorre che la solarità sia stabile, come quando il meteo dice “bello stabile”.

Anche la luna ha ricadute linguistiche sulle tipologie umane. Premetto che la luna può essere anche di miele e fungere da sgabello alla femmina sovrumana di cui sopra: ma questo suo uso mellifluo o grossolano a noi non interessa. Il suo aggettivo originario è lunare, onde fasi lunari, ecclissi lunare e macchie lunari. Anche lei, poverina, è maculata di ombre che incuriosiscono Dante nel canto secondo del Paradiso.

La nostra maggior Musa infatti, giunta nel cielo della luna ben prima degli americani, chiede a Beatrice: «Che son li segni bui \ di questo corpo, che là giuso in terra \ fan di Cain favoleggiare altrui?» (vv. 49-51). Qualcuno credeva che le macchie lunari fossero l’ombra di Caino proiettata sulla luna, non si sa in che modo. Dante prende le distanze usando lo scettico verbo “favoleggiare” (= contare balle). Caino infatti non centra e Beatrice spiega a Dante la natura delle macchie lunari ricorrendo ad arzigogoli ottici che non ho mai capito. Pazienza!

La luna ha incuriosito un po’ indiscretamente grandi ingegni. Infatti il nostro Leopardi nel suo Canto notturno di un pastore errante dell’Asia la interpella: «Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai, \ silenziosa luna?». Bella l’immagine della luna non fracassona ma silente; meno ridanciana del sole, un po’ pacchianotto nei suoi implacabili dardi estivi. Leopardi non doveva avere un gran bel carattere.

Al liceo mi veniva descritto come un po’ cupo e introverso. Forse persino un po’ lunatico. Ecco l’altro aggettivo astronomico catturato dall’uomo per applicarlo a una sua tipologia! Lunatico è il balzano, imprevedibile, un po’ come la luna che ora c’è ora non c’è. E si credeva che queste alternanze lunari influissero sull’umore umano, oltre che sul vino. Lunatico sarebbe dunque l’opposto di solare? Direi proprio di sì, e per giunta di uso ben più antico in riferimento all’uomo di quanto lo sia il recente solare.

Concludendo, il sole e la luna che Dio ha piazzato nel firmamento alla sua quarta giornata lavorativa (Gen 1,14-19), non solo fanno il loro mestiere in cielo, ma forniscono alla creatura blaterante (noi) pittoresche sfumature di linguaggio.

Mons. Alberto Albertazzi
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1 Collegamento di parole.
2 I limoni.